Eleonora

Tratto dall'antologia "Sussurri dalle Tenebre"

La nebbia di dicembre si mescolava al vapore del fiato e ai fumi della rabbia.
- Mi andrà a quel paese il lavoro del parrucchiere - pensò, mentre percorreva i viali del parco.
- Per quello che è servito, può andare dove vuole, insieme a quello scemo e a questo sabato sera del CAZZO!
Non c'era voluto molto: era bastato un laconico messaggio su WhatsApp, inviato un paio di ore prima:
“Scusa Ele. Un contrattempo. Magari facciamo la prossima settimana. Baci”
Neppure la fatica di una telefonata.
Accelererò il passo, strattonando bruscamente il guinzaglio e il cane che camminava al suo fianco guaì:
- Cosa c'è Rex? Non sei orgoglioso di essere a spasso con una padrona al massimo del suo fascino, fresca di piastra e di estetista? Almeno tu potresti cercare di dimostrarmi un pizzico di ammirazione, visto il bidone che mi ha tirato l'ennesimo stronzo di turno.
Il pastore tedesco la guardò con quell'aria perplessa che riservava ai suoi sfoghi e, come ogni volta, si sentì una stupida.
La sola colpevole era lei. Senza nulla togliere a quell'altro cretino.
Si fermò un attimo ad accarezzare il testone di Rex e, mentre con la mano percorreva il suo pelo soffice e confortante, il cane percepì qualcosa che lo mise in allarme.
Le lunghe orecchie si drizzarono, la coda si irrigidì tra le zampe posteriori, scoprì le zanne e iniziò a digrignare.
Una figura umana si muoveva tra la luce giallastra dei lampioni e le sagome indistinte degli alberi.
Anche lei si immobilizzò e tirò indietro il cappuccio del giaccone per scrutare meglio. Le parve strano che non si avvertisse lo scricchiolio dei passi sulle foglie secche.
Rex lo avrebbe sentito a un chilometro di distanza e l'avrebbe messa in allarme molto prima.
La sagoma si stava avvicinando verso di lei.
Sembrava un uomo, di altezza e corporatura media.
Vestiva un impermeabile scuro e aveva un'aria famigliare. Quando fu a una ventina di metri, accadde l'imprevisto: il cane si girò all'improvviso e iniziò a correre nella direzione opposta con una foga tale che il guinzaglio le sfuggì di mano. Cercò invano di richiamarlo:
- Rex, dove scappi? REX!
Nulla da fare. Ebbe solo il silenzio della nebbia come risposta.
A quel punto fu presa dal panico.
Aveva perso la sua miglior difesa.
Si girò di scatto verso l'uomo che, ormai, era a pochi metri da lei e fu allora che lo riconobbe.
A quel punto la paura venne sostituita dalla rabbia e lo apostrofò con voce adirata:
- Papà! Che cazzo ci fai qui? Mi hai fatto scappare il cane. Spero tu sia contento.
Suo padre non si avvicinò oltre.
Rimase con le mani dentro le tasche dell'impermeabile e a bassa voce rispose:
- Ciao, Ele. Non volevo spaventarti. Come stai?
Non ricevendo alcuna risposta, aggiunse:
- Volevo solo vederti.

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INCUBO POST-APOCALITTICO DI TIM CURRAN

Dopo l’olocausto nucleare, un gruppo di sopravvissuti si rifugia nel bunker progettato da Lilian, un nascondiglio sicuro fatto di acciaio e piombo... o così sembra. Con un ritmo incalzante e un’atmosfera claustrofobica, Aftermath incalza tra spettri di follia e oscuri desideri, trascinando il lettore in un’odissea dove la più grande minaccia non è la radioattività… ma il male che si cela nell’animo umano. Disponibile in ebook e cartaceo entrambi illustrati.

Adesso che la tensione e l'adrenalina stavano scendendo, le venne spontaneo replicare con lo stesso tono sprezzante di quando si erano visti l'ultima volta, quasi quattro anni prima
- Adesso mi hai visto. Contento? Anche se non capisco come facessi a sapere dove mi trovavo. Comunque, per quello che mi riguarda, puoi anche tornartene da dove sei venuto.
Lui non sembrò colpito dal disprezzo che trapelava nelle sue parole. Rimase in silenzio a fissarla, tanto che lei, dopo un po', distolse lo sguardo.
Per dissimulare l'imbarazzo che provava, si sedette ad un'estremità della panchina in mezzo a loro, concentrandosi sul freddo del metallo che le attraversava la stoffa dei jeans.
Lui si limitò a sedersi senza dire nulla, dalla parte opposta, un giornale del giorno prima e quattro anni a dividerli.
- Mi dispiace - disse suo padre dopo qualche secondo di silenzio, lo sguardo rivolto verso le foglie a terra - Sono le parole più ovvie e più stupide che vorresti sentire da me, ma non ho altre giustificazioni da offrirti.
Lei trasalì perchè, in fondo, era quello che pensava.
Questo servì un po' a calmarla, ma l'astio che provava nei suoi confronti non le permise di rispondere senza far trasparire il suo disprezzo.
- Un po' tardiva come scusa, non ti pare? E poi a che serve? Non cambia nulla.
Si guardò le scarpe da ginnastica e la condensa del fiato che le usciva dalla bocca.
Suo padre parlò continuando a guardare le foglie. Le labbra sembrava fossero immobili, ma la voce le risuonò forte e chiara nella testa.
- Parla e insultami quanto ti pare, se questo ti fa star meglio. Mi hai già punito con il silenzio quattro anni fa.
Lei accusò il colpo.
Lasciò che tutto il rancore e l'amarezza, scatenati dall'averlo rivisto si riversassero contro di lui come un fiume in piena.
- Cosa dovrei dirti? Che mi vergognavo di te? Se è per questo mi vergogno tutt'ora.
Sentiva le lacrime riempirle gli occhi, insieme a un'ondata di dolorosi ricordi.
Adesso che lo aveva di fianco a se, provò l'irrefrenabile necessità di rinfacciargli tutto quello che, fino ad allora, si era tenuta dentro:
- Prima due anni di liti tra te e la mamma, poi tu che molli il lavoro per la tua depressione, giusto dopo la mia maturità pur sapendo che questo avrebbe significato il mandarmi a puttane l'università per lasciarmi a un futuro come cameriera.
Si girò furente verso di lui. Le lacrime non bastavano ad impedire al suo sguardo di trasmettere l'odio trattenuto per tutti quegli anni.
- Infine è arrivata la tua amica bottiglia. Quella si che era una gran compagnia e alla mamma non è rimasto che buttarti fuori di casa.
Adesso era in piedi, i pugni chiusi, il viso bagnato, urlando senza il timore di farsi sentire, come se al mondo esistessero solo loro due:
- Si. Mi vergogno ancora di te. E voglio che tu scompaia nella fogna in cui sei stato finora.
Dopo queste parole, si accasciò sulla panchina, gli occhi vuoti, annichilita dalla sua stessa rabbia.
Suo padre non replicò e la cosa un po' la spiazzò. Si aspettava, da parte sua qualche patetica giustificazione.
Magari anche solo un inutile: “... stavo male. Cerca di capirmi”.
Invece niente. Allora prese in mano il giornale sulla panchina. Era aperto nella pagina di cronaca locale. Iniziò a leggere distrattamente i titoli in grassetto, più per vincere il disagio che iniziava a procurarle il silenzio di lui, che per un reale interesse:
“Scoppia una bombola del gas in una palazzina popolare: due feriti gravi...Rapina all'ufficio postale con il cutter. Nessuna traccia dei malviventi... Dramma della solitudine: cinquantenne alcolista trovato morto nel suo monolocale.”
I suoi occhi si fermarono per un attimo sulla foto di quel trafiletto. Istantaneamente si girò di scatto, sbigottita e stupita ad un tempo:
- Papà! Ma come... come - fu tutto quello che riuscì a dire.
Suo padre continuò a non proferire alcuna parola.
Si limitò ad allungare la mano per stringerle il polso. Il contatto le provocò una scarica in tutto il corpo, come quando aveva inavvertitamente toccato un filo scoperto della sua Playstation.
All'improvviso, come il dispiegarsi di un origami, la sua mente si affollò di immagini e ricordi.
In pochi istanti la usa mente rivide TUTTO.
Vide se stessa, a pochi mesi, rispondere dalla culla al suo sorriso, quando lui rientrava dal lavoro.
Vide l'acqua azzurra della piscina quando, a tre anni, si reggeva alle sue spalle per nuotare.
Vide i libri e le illustrazioni che lui le spiegava.
Vide le innumerevoli partite ai giochi di società nelle quali lei doveva sempre vincere,
Vide la sera della vigilia dell'esame di scuola media, mentre lui le riassumeva i programmi di storia e scienze, le materie che più detestava.
Vide la volta che era partito per un viaggio di lavoro ed era tornato prima del previsto, dopo la sua telefonata.
Vide le carezze, i sorrisi, le lacrime. Ogni cosa.
Quando tutto finì, aveva il fiato corto e si sentiva frastornata, come dopo un giro vorticoso sulle montagne russe.
Si girò a guardarlo, ma l'altro lato della panchina era vuoto.
D'improvviso udì scaturire dal buio la sua voce, chiara e distinta come se fosse di nuovo accanto a lei:
- Sei la cosa che ho amato di più. Volevo solo che lo sapessi».
Lei, guardando la nebbia davanti a se, rispose:
- Lo so. Adesso lo so. Arrivederci papà.
A quelle parole, un vento leggero si alzò nella notte accarezzandole i capelli e facendo crepitare le foglie secche sui viali del parco.

“Quando muoiono non gli importa ricordare chi erano dove sono nati o dove hanno vissuto. E' molto più semplice di così. Vogliono solo stare vicino a coloro che hanno amato.”
(Citazione tratta dal film horror “Fragile” di Jaume Balaguerò, 2005)

Cristiano Venturelli



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