
26 giugno 2010 ore 1:00 di notte.
Il caldo era arrivato già da parecchi giorni, ma di notte per fortuna era più che sopportabile e le persone della contea di Angelina nello stato del Texas potevano dormire tranquille e fresche.
Arthur però quella notte si svegliò di colpo madido di sudore con il pigiama a righe blu che seppur leggero era fradicio, i capelli neri sudati sembravano essere ricoperti di una strana gelatina.
Aveva tredici anni e mezzo, nel mese di ottobre ne avrebbe compiuti quattoridci, ma sembrava molto più piccolo, forse perché basso di statura come suo padre o forse perché molto magro come sua madre Eveline. Arthur quella notte si affacciò alla finestra della loro bellissima e grandissima casa, una casa isolata dal centro abitato, suo padre mandava avanti il ranch di famiglia e la loro casa apparteneva da generezioni alla sua famiglia, sua nonna rimasta vedova a trentadue anni si era sistemata in una piccola depandance della casa. Dovevano essere passati pochi minuti quando sentì uno strano rumore, spostò la testa e vide il sedile dell’altalena sua e dei suoi fratelli muoversi. Di scatto ritirò la testa dentro la stanza. Il suo sangue era diventato di cristallo, passò qualche minuto e pronto a dimostrarsi di essere ormai un uomo decise di uscire sul terrazzo della sua camera.
«Visto, non c’è niente di cui preoccuparsi!» pensò Arthur fra sé e sé, poi poco prima di rientrare vide la luce della porta d’ingresso della casa di sua nonna spengersi e riaccendersi piano piano, non era ancora rientrato in camera sua che sentì il rumore di uno scoppio; la lampadina che aveva osservato prima riaccendersi e spengersi era scoppiata all’improvviso.
La paura lo atterrì, si adagiò sul letto sussurrando che quello era solo un brutto sogno, provò a darsi dei pizzicotti sul braccio sinistro, ma niente da fare, era proprio sveglio. La porta era chiusa, colorata di bianco aveva la maniglia color ottone, l’aprì però di soppiatto, il buio invadeva il corridoio. Era stretto e lungo, ai muri erano appesi foto dei viaggi dei suoi genitori sia da fidanzati, sia una volta divenuti genitori con i figli ancora piccoli. La tre porte erano entrambe ben chiuse, provò a fissare dapprima quella accanto alla sua; quella dei suoi genitori, la camera più tetra che lui conoscesse, ma niente si muoveva. Provò a correrre verso la porta in fondo al corridoio, quella di sua sorella Elisabeth, una ragazzona di sedici anni; capelli folti e neri, brufoli sul viso e un apparecchio ai denti inferiori che la rendeva molto più brutta di quella che era veramente. Superò senza neanche farci caso la camera di suo fratello Mark, undici anni. Aprì la porta con fare deciso ma timido al tempo stesso, un altro sarebbe piombato nella camera dei genitori, ma si sa gli adulti non credono troppo alle storie dei ragazzi. Con sua grande meraviglia trovò sua sorella seduta sul letto, con quella sua veste da notte color azzurrino, pensò che lo avesse sentito entrare, ma evidentemente non era così.
«Lillibeth?» provò a domandare come se si fosse reso conto di qualcosa che non andava, la chiamava così da quando aveva tre anni.
«Lillibeth, sono io Arthur, posso dormire con te stanotte?»
Teneva la testa bassa, i suoi folti capelli mori le coprivano l’intero volto. Quando finalmente ebbe alzato la testa, non vide il volto di sua sorella, tutto in quel volto era stato cancellato e ora appariva un’enorme macchia nera. Elizabeth provò ad alzarsi da letto, ma ricadde subito, Arthur avrebbe voluto correre via, ma la paura gli aveva immobilizzato le gambe. Sua sorella provò ad alzarsi di nuovo e questa volta ce la fece anche se camminava con un’andatura sbilenca lasciando sul pavimento uno strano liquido trasparente. Arthur urlò e corse via, si sarebbe aspettato una reazione da parte dei suoi genitori o di suo fratello, ma niente da fare, entrò in camera dei genitori e con sua grande paura vide qualcosa più grande di lui. I cadaveri dei suoi genitori erano riversi l’una sul letto e l’altro a terra, sembravano essere stati uccisi da una mannaia o da una katana, non osò immaginarsi cosa poteva essere accaduto a Mark.
Sua sorella era lì sulla porta della camera, con una voce che non era la sua, ma che poteva sembrare la voce di un uomo disse: «Hai visto cosa ho fatto ai nostri genitori?» mentre dalle sue labbra usciva una strana bava color azzurro e verde. Poi riprese: «ora questo toccherà anche a te e al piccoletto che dorme beato di là!»
Questo voleva dire che Mark, il suo Mark era sempre vivo, ma non fece in tempo a finire la frase che con uno scattò si avventò contro suo fratello. Provò a morderlo, al posto dei denti aveva dei piccoli serpentelli color viola, nel volto era solo un’enorme macchia nera. Provò a colpirla, ma niente. Riprovò più forte e questa volta sembrò stordirsi. Arthur corse in camera del fratello provando svegliarlo, voleva salvarlo a tutti i costi.
«Spiacente, siete morti entrambi» urlò. Con degli artigli color grigio scuro graffiò il torace di Arthur per poi avventarsi sul fratellino e iniziargli a divorare la testa. La macchia nera iniziava piano piano a diventare rossa del sangue di Mark. A un certo punto la voce della cosa che si era preso sua sorella iniziò a farsi ancora più virile, guardò negli occhi Arthur e disse ridendo di una risata amara: «Arthur ma non mi riconosci?» poi proseguì: «ma come potresti? Quando sei nato ero morto già da lungo tempo.» Si alzò dal letto, con una mano teneva bloccato Arthur eppure non lo toccava nemmeno, si avvicinò e disse: «Sono tuo nonno, sono tuo nonno Benjamin.»
«Non capisco» rispose Arthur che stranamente appariva placato.
«Tua nonna, oh tua nonna, quella miserabile puttana aveva scoperto tutto. Aveva capito che ad uccidere quelle tre ragazze trovate dilaniate dopo essere state stuprate ero stato io e aveva capito che il prossimo sarebbe stato tuo padre, sai ero solito andare in camera sua la notte e non era di certo per augurargli la buonanotte, così mi uccise dandomi del veleno nel cibo, tutti credettero che mi avesse colpito un’aneursisma cerebrale.»
Gli sferrò un morso alla gola e il sangue schizzò da tutte le parti, il pavimento oramai era un lago rosso, ma poco dopo il dolce e buono Arthur aprì gli occhi e vide che la sveglia di camera sua segnava le nove e cinquanta di mattina. Sua madre gli sussurrò: «Arthur, hai urlato tutta la notte, avevi la febbre molto alta, eri fradicio di sudore, abbiamo anche chiamato il dottore ci ha rassicurato molto in queste ultime ore… ora stai meglio però.»
«Ma io…»
«Qualsiasi cosa tu creda di aver visto era solo un sogno, ora vieni giù a fare colezione, i tuoi fratelli ti aspettano» riprese lei alzandosi dal letto, aveva i cappelli riccioluti appuntati con una spilla rosso-oro sulla testa.
Scese giù il sole invadeva la stanza, sua madre come ogni sabato mattina aveva preparato per colazione uova strapazzate e bacon croccante con succo di frutta ghiaccio, per lui invece stava per arrivare una bella e fumante tazza di latte bianco. Guardò sua sorella che ricambiò subito lo sguardo, ma in una maniera bieca, con un sorriso beffardo, si asciugò le labbra e nonostante il tovagliolo fosse giallo si tinse di azzurro e verde. Arthur la guardò con il sangue di gelo, provò ad alzarsi dalla sedia, ma venne rispinto giù, vide suo padre guardarlo fuori dalla porta-finestra con la fronte adagiata sul vetro, aveva al posto del viso un’enorme macchia nera, si girò dall’altra parte, tutti i suoi familiari avevano al posto del loro volto quella ripugnante macchia nera, compreso il suo amato Mark.
Urlò con tutta la forza che aveva nei polmoni, ma oramai non poteva fare altro che aspettare la sua ora.
Mi chiamo Arianna Andreoni, sono nata a Pisa il 10/12/1997, ma vivo da sempre a Vecchiano.
Sono diplomata al Liceo delle Scienze Umane Giosuè Carducci di Pisa e al momento frequento il dipartimento di Giurisprudenza con il sogno di diventare avvocato. Nel 2020 è uscito il mio primo romanzo “Stella” edito dalla casa editrice Porto Seguro e l’anno dopo “Raccontami di quel giorno d’autunno” sempre con la stessa casa editrice. Nel giugno di quest’anno è uscito con Giovane Holden edizioni il mio terzo romanzo “ Azzurro come il cielo”.
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