Lo svegliò la sete. Una sete come non ne aveva mai avuta.
Dalla gola, la sensazione attraversava tutto il suo corpo come uno spasmo doloroso.
Teneva sempre sul comodino una bottiglia d’acqua: la prese e la vuotò tutta d’un fiato, alleviando il dolore abbastanza da permettergli di alzarsi e raggiungere il bagno.
Si riempì lo stomaco trangugiando acqua dal rubinetto del lavabo.
Quando si tirò su, ansimando, quasi non si riconobbe nello specchio. Il suo volto era segnato da occhiaie così profonde che parevano inghiottire gli occhi ed era magrissimo, come una persona che non mangia da settimane. La pelle del viso mostrava macchie più chiare, ruvide al tatto come croste.
Ne staccò una, scoprendo la pelle ulcerata sottostante.
Ripugnato dalla vista della piaga, rovistò nell’armadietto dei medicinali finché non trovò un vecchio flacone di disinfettante. Si tamponò la ferita e poi coprì la pelle malata con un cerotto.
Uscì dal bagno e barcollò fino alla cucina.
Non si udiva alcun rumore, né in casa né proveniente da fuori. Aprì la finestra e il silenzio lo investì come un urto.
In strada, le auto erano immobili come relitti. Sui marciapiedi non c’erano neanche i soliti proprietari coi cani.
Staccò il cellulare dalla presa dove l’aveva lasciato in carica la sera prima e lo accese. Nessun segnale. Provò con la televisione del soggiorno, girando tra diversi canali. Schermo nero e assenza di segnale.
Avvertì una fitta improvvisa al lato destro dell’addome.
Il dolore riaccese il fuoco della sete. La vista gli si annebbiò.
Il suo corpo fece tutto in autonomia, come se sapesse da sempre cosa fare in quei casi. Si attaccò al rubinetto, lasciando scorrere l’acqua e bevette finché non sentì che la crisi era passata.
Doveva uscire dal palazzo.
Non sarebbe mai riuscito a capire cosa era successo, se fosse rimasto in casa.
Si ricordò di un vecchio zaino da montagna. Lo recuperò dall’armadio a muro, raccolse ogni bottiglia di plastica che riuscì a trovare in casa e le riempì con l’acqua del rubinetto. Con quella scorta, avrebbe potuto almeno tentare di mettere piede in strada senza rischiare di morire di sete.
Guardò attraverso lo spioncino: il pianerottolo era deserto.
Aprì uno spiraglio e tese l’orecchio, incerto se desiderasse davvero sentire qualcosa.
Niente, nessun suono. Era come se la tromba delle scale fosse piena d’ovatta.
Scendendo le scale suonò tutti i campanelli, ma nessuno rispose.
Consumò quasi mezza bottiglia solo per arrivare al portone.
Stimò che con la scorta che portava addosso avrebbe avuto al massimo una decina di minuti di autonomia, ma erano sufficienti: alla fine della strada c’era un giardino pubblico con una fontanella, dove avrebbe potuto riempire le bottiglie – sempre che funzionasse ancora.
In strada si accorse di un dettaglio che dalla finestra gli era sfuggito: l’asfalto era ricoperto da un velo di polvere. L’aria stessa ne portava l’odore pungente, minerale, come quello della pietra bruciata. Era come se il mondo, già svuotato di ogni presenza, si stesse dissolvendo.
INCUBO POST-APOCALITTICO DI TIM CURRAN
Dopo l’olocausto nucleare, un gruppo di sopravvissuti si rifugia nel bunker progettato da Lilian, un nascondiglio sicuro fatto di acciaio e piombo... o così sembra. Con un ritmo incalzante e un’atmosfera claustrofobica, Aftermath incalza tra spettri di follia e oscuri desideri, trascinando il lettore in un’odissea dove la più grande minaccia non è la radioattività… ma il male che si cela nell’animo umano. Disponibile in ebook e cartaceo entrambi illustrati.
A un certo punto gli parve di scorgere un movimento con la coda dell’occhio, una sagoma scura, apparsa per un istante e subito sparita. Guardò nella direzione da cui gli era sembrato di vederla, ma non c’era niente.
Suonò ai citofoni, scrutò attraverso le vetrine dei negozi chiusi, come se da un momento all’altro qualcuno dovesse comparire a smentire quel silenzio. Era spettrale e il silenzio peggiorava le cose.
Intorno a lui, tutto restituiva l’impressione di un ordine innaturale, come se un istante prima la vita scorresse normale e un istante dopo fosse stata spenta di colpo.
Si accorse che, nonostante la disperazione, dentro di lui cresceva una sorta di aspettativa, come se il mondo non fosse solo vuoto ma in attesa, come se quella desolazione fosse in realtà il preludio di qualcosa di peggiore che si stava preparando.
Gli attraversò la mente l’immagine di una strada bagnata, illuminata dai fari di un’auto.
Avvertì con tutto il corpo la sensazione dell’impatto contro qualcosa. Una sensazione intensa, realistica, che gli provocò una nausea violenta.
Scorse di nuovo la sagoma scura alla fine dell’isolato.
Gridò nella sua direzione, ma la sagoma scomparve. Corse per raggiungerla, ma arrivato a metà strada dovette fermarsi, perché proseguire significava rischiare di rimanere senza acqua, e senza acqua non sarebbe sopravvissuto.
Arrivò al giardino pubblico e si diresse verso la fontanella.
Premette il pulsante, pregando che funzionasse. Le sue preghiere furono esaudite: un fiotto d’acqua zampillò immediatamente. Bevve avidamente, poi riempì le bottiglie vuote che aveva con sé.
Oltre il giardino c’era un bar che conosceva. Sembrava deserto, come tutto il resto, ma era aperto. Si diresse verso i tavolini, consapevole che il locale apriva alle 5:30, uno dei pochi del quartiere ad aprire così presto. Qualunque cosa fosse accaduta, quindi, doveva essere successa tra quell’ora e le sette, quando lui si era svegliato.
Prese una lattina di Cola dal frigo e la bevve d’un fiato. Provò un sollievo enorme quando scoprì che ce n’erano decine, distribuite in file ordinate nel frigo. Ne prese un’altra, ma mentre stava per aprirla, gli cadde.
Mentre si abbassava per raccoglierla, una sequenza di immagini lo investì come un’auto in corsa. Di nuovo la strada bagnata, illuminata dai fari. All’improvviso, una sagoma nera, indistinta. Di nuovo la sensazione fisica dell’urto, come una scarica elettrica che si propagò dalla base della colonna fino alla sommità del cranio, lasciandolo esausto, tremante e in debito di liquidi. E poi il silenzio che lo inghiottiva e lo lasciava sospeso tra colpa e memoria.
Restò seduto a lungo nel locale, sorseggiando Coca Cola una lattina dopo l’altra. Era come un malato che può sopravvivere solo continuando a bere.
La sua terapia era anche la sua condanna.
Il tempo per lui non aveva più senso.
Ore e giorni tutti uguali si susseguivano, segnati dalla sete e dal terrore di scomparire.
Iniziò a prendere nota del consumo d’acqua e ne ebbe presto la conferma: la sete cresceva col passare delle ore. Trovò una soluzione, perché chi vuole qualcosa con tutto sé stesso trova sempre il modo di averla. E lui voleva che la sete gli desse tregua.
Una sacca per flebo, appesa a una gruccia di fortuna. Aveva preso tutte quelle che era riuscito a trovare nelle farmacie della zona. Questa soluzione gli permetteva di restare idratato e di non andare in pezzi per la sete. Ora gliene rimaneva una sola.
La tenne in mano qualche secondo prima di collegarla, studiando il liquido che tremolava dentro. Una banalissima soluzione fisiologica, eppure la sua intera esistenza dipendeva da quella.
L’ombra, quella sagoma scura che aveva più volte intravisto in strada – la stessa che aveva visto quella notte, ne era ormai certo – lo fissava da un angolo del soggiorno. Non aveva occhi, ma lui sapeva che lo stava fissando: era lì per quello, per inchiodarlo con la presenza alle sue responsabilità.
Si chiese se valesse la pena collegare quell’ultima sacca.
Restare lì, in un mondo cancellato, a fare i conti col suo senso di colpa e con una sete che non si sarebbe mai spenta finché avesse vissuto.
Chiuse gli occhi e per un istante credette di sentire il rumore dell’acqua da qualche parte, lontano, come la promessa di una pace oltre il perdono. Poi aprì di nuovo gli occhi e l’ombra era più vicina, più opprimente, eppure nonostante questo le era grato, perché forse lei avrebbe fatto quello che lui non era riuscito a fare in tutto quel tempo, risparmiandogli il peso ulteriore della vergogna. Lei non era lì per caso.
Rimase immobile, sapendo che la sete non si sarebbe mai placata e che l’ombra lo avrebbe seguito per sempre, accompagnandolo ovunque.
Dalla flebo appesa si staccò l’ultima goccia di soluzione.
Prese la sacca che aveva in mano e la rimise a terra.
L’ombra lo avvolse e sentì che ogni peso e ogni colpa si erano finalmente dissolti in quell’abbraccio silenzioso, riconciliatorio con lei.
Era libero.
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