
Gelidi venti catabatici spazzano via la foschia arancione - idrocarburi grezzi - mentre i riflessi di un Sole distante illuminano il mar di Ligeia.
Ho poche ore di luce per trovare l’isola che non c’è - il costrutto che appare e scompare dai radar fin dai tempi della sonda Cassini - e un solo modo per arrivarci, questo kayak paracadutato su Titano un mese prima del mio arrivo.
Come gli eschimesi lo “indosso”, sigillandone ermeticamente l'apertura attorno alla mia vita con un indistruttibile paraspruzzi in carbon-kevlar.
La gravità ridotta e la densità del metano liquido rendono persino gradevole la navigazione, tuttavia il pensiero continua a tornare a una minuscola incrinatura sulla paratia stagna del gavone di prua.
Nulla di preoccupante, mi dico e continuo a pagaiare, ma si insinua il pensiero, fobico, di una contaminazione: minuscole spore che si schiudono nel tepore sottocoperta e decine di orride creature, aliene quanto affamate, che iniziano a risalire chitinose lungo le mie gambe...
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