Succuba

Avevo un lavoro di merda, che mi consentiva di pagare il monolocale nel quartiere periferico popolare, una stanza in cui dormivo e mangiavo con un piccolo cesso adiacente, quindi si poteva benissimo affermare che mi lavassi ed espletassi i miei bisogni nella stessa stanza, solo separato da una porticina scorrevole. Poi mangiavo certo, cibo a buon mercato per pasti frugali. Oltre a dormire e mangiare non avevo molto tempo per me stesso, tantomeno per relazioni e amicizie.

Si dice che nello squallore degradante proliferi il male e forse fu quello che mi accadde, probabilmente proprio dalle carcasse di cibo consumato e andato a male, dalle fibre delle mie lenzuola non lavate, lei sorse come un parassita.

La prima notte in cui giunse fu solo un impercettibile fruscio, una sensazione piacevole; leggero peso sul mio addome, un alitare speziato sulla mia faccia che sembrava il vento della sera primaverile, cose insignificanti insomma, ma che trasmettevano benessere, non come il fruscio che provoca lo zampettare delle blatte sul tappeto, a cui ero abituato appena spegnevo le luci.

Feci sogni stupendi, paesaggi tropicali, mari quieti in cui mi immergevo in bagni rilassanti e paradisiaci, ebbi un orgasmo e mi svegliai all’alba imbrattato di sperma.

Il giorno dopo al lavoro ero debole, allucinato, la gente intorno a me pensava che fossi reduce da una sbronza. Ma non era così, anzi fu da quel momento, ora che ci penso, che iniziai a bere in maniera massiccia, volevo stordirmi, stendermi e ripetere quei sogni, infinitamente più piacevoli della triste realtà che mi circondava. Iniziai a non mangiare, a saltare il lavoro, a bere soltanto, così nel giro di due mesi di totale assenteismo, in cui me ne stavo a letto, fui licenziato.

Lo feci perché lei tornò ogni notte permettendomi di riconoscerla, consentendomi di toccarla lentamente, dandomi fiducia, come un animale selvatico che impara a conoscere l’uomo, dicendo con quella voce sussurrante e melodica di volere solo me. Si distendeva sul mio petto, mi baciava, mi dava calore, quel gelido letto incrostato di solitudine finalmente viveva il tepore di un’ospite e io ero felice, anche se non ero sicuro se quella fosse illusione o realtà, sogno o veglia allucinata dall’alcool. Ogni volta lei mi svuotava del mio sperma, lo beveva, succhiandolo dal mio sesso, l’estasi che mi provocava quell’atto, mi dava oltre a un estremo godimento, un viscerale dolore, provocandomi debolezza e deperimento, quando andava via era come se matasse di vermi brulicassero nel mio letto.

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Ero sempre più malato, debole e immobile, non mi muovevo dal letto. Ero innamorato però, aspettavo che il suo volto apparisse, bianco come le pareti rischiarate dalla luna, sospeso nel buio come un fantasma. Sentire il suo fiato da predatore, i suoi baci di lussuria diabolica, il peso del suo corpo sul mio petto che mi inchiodava immobilizzandomi, fino a quasi uccidermi soffocando il mio respiro, questa era diventata la mia ragione di vita e il premio di ogni mia quotidiana attesa. Era chiaro ormai che lei si nutrisse di me, svuotandomi della vita che beveva a grandi sorsate ogni notte, ma io aspettavo sempre, con fervore d’adolescente il suo ritorno.

Ormai non ero altro che un guscio rinsecchito privo di linfa, la vita era solo un filo sottile legato alla sua prossima visita in cerca dell’ultima mia eiaculazione.

Fu in una di quelle notti che con le ultime forze rimaste osai allungare le mani verso il suo corpo, l’accarezzai, pensavo di meritarmelo ormai visto che avevo dato la vita per lei rinunciando al mondo esterno, che tuttavia per me non aveva comunque attrattiva alcuna. Sentii sotto le dita delle zampe callose, disgustosi arti atrigliati d’uccello e non tenere natiche o cosce polpose come m’aspettavo, piume di delirio, essenza di incubo e non di sogno come avevo creduto. La realtà m’invase tutta in un solo colpo simile a una valanga, facendomi andare in coma, letteralmente...

Lei rideva sguaiatamente, ancora ricordo quella risata di scherno da demone parassita, appollaiata sul mio petto, nutrendosi avidamente e senza pudore dei miei rantoli di disfatta e delle ultime gocce di sperma che erano in me.

Mi sono svegliato qui, in ospedale, non so quanto tempo sia passato dal mio collasso, temo che possa raggiungermi anche in questo posto finendo ciò che aveva iniziato. Proprio ieri ho sentito il primo fruscio sulle lenzuola, come il frullio d’ali d’un volatile malevolo, così come si era annunciata mesi fa nella mia squallida stanza, piuma di morte e illusione assetata di vita altrui, pronta ad accovacciarsi sul mio petto rubando la mia misera vita fatta di solitudine e alienazione, di cui ormai a nessuno più importa.

Davide Giannicolo



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