Nonno Franco aveva voluto così. Una sera mise sul tavolo la diagnosi e il contratto del dottor Wolfanski, già firmato.
“Le migliori cure palliative senza pagare nulla” disse mentre leggevo la prima pagina.
“Ma durante il ricovero rinunci a ogni forma di comunicazione con l'esterno”.
“E cedo il mio corpo alla ricerca.” Mi mise una mano sulla spalla. “Così non dovrai più preoccuparti per me". Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Sulle sue labbra, nemmeno un tremito.
Il suo certificato di morte arrivò per posta cinque mesi dopo. Era accompagnato da un biglietto per una mostra, intitolata “Living Bodies by Wolfanski”. Attesi tre settimane, ma ci andai.
Il corpo del nonno era lì: scorticato, in una teca di vetro, su una sedia a dondolo azionata da uno stantuffo. La cartillagine del naso era grigiastra, le gote di un bel rosa. Senza pelle – senza rughe – dimostrava almeno vent'anni di meno.
Tra le costole si intravvedevano i polmoni neri. Mi chinai per vedere meglio e i suoi occhi mi seguirono – come facevano a muoverli? Cercai un meccanismo alle sue spalle, ma a parte i cavi che tenevano il corpo attaccato alla sedia, non c'era nulla.
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Mi rimisi di fronte a lui sempre sotto il suo sguardo, i suoi occhi ancor più sgranati. Anche la bocca si era mossa, schiudendosi di qualche millimetro; le labbra si corrucciarono e lasciarono intravedere un movimento della lingua. La sedia irradiava corrente elettrica? La testa ripetè quelle movenze, ma in maniera più fluida – tutto troppo regolare, per essere dei semplici spasmi.
La teca di vetro si appannò col mio respiro. Tre sillabe, tre movimenti. Li imitai con la bocca mentre quelle pupille dilatate entravano sempre più nelle mie. Mi si mozzò il respiro.
“Aiuto?” mormorai.
Nonno Franco annuì.
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