Manichino

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2018 - edizione 17

Non sarebbe accaduto nulla quella sera se non avessi notato i suoi capelli stopposi e quel corpo ormai abbandonato dalla femminilità. Si era accesa la solita discussione, forse per un bicchiere mal riposto, forse per un piatto scheggiato e in un istante mia moglie divenne l’idealtipo del mio fallimento. Sentii esplodermi in seno una rabbia lacerante che mi conquistò il cervello. Se almeno avesse taciuto. Invece niente; articolava fonemi striduli con quella voce odiosa senza accennare a fermarsi. Improvvisamente le mie mani, ormai senza governo, le strinsero il collo spezzando l’osso; non sospettavo di avere una simile forza. Finalmente taceva, ora. «Meglio così,» pensai, «non intralcerà il mio lavoro».
Mi misi subito all’opera. Sollevai a braccia il corpo, lo adagiai sul tavolo in cucina, lo spogliai e lo rasai insaponando con cura le parti più ispide. Mi diressi poi verso l’armadio delle stoffe e scelsi il gessato blu che mi pareva acconcio. Distesi la tela sul pavimento e cominciai il lavoro di sartoria che, un tempo, appresi da mio padre. Tagliai una lunga striscia di stoffa e papà mi fu subito accanto: «Taglia così», diceva e io ubbidivo.

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Avevo preparato stoffa sufficiente per confezionare un abito e cucii i pantaloni direttamente sul corpo esanime traforando la carne delle gambe. Non c’era traccia di sangue e me ne rallegrai: avrebbe rovinato il tessuto. Feci lo stesso con la giacca e la assicurai al tronco con larghi punti tesi fra la schiena e il petto. Strappai poi i capelli alle innumerevoli bambole che mia moglie collezionava compulsivamente e li incollai al cranio rasato di quel macabro manichino. Infine cavai gli occhi dalle orbite e vi cucii due bottoni di madreperla.
Questo è il mio peccato Reverendo, per il resto, nella vita, ho rigato dritto come un fuso.

Alberto Bellocchio



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