Attarantati

3° classificato al concorso "Premio Scheletri", 2018 - edizione 10

“Ballati tutti quanti ca ballamu puru nui”.
Gli echi di questi ultimi versi si rincorrevano frenetici, rilanciati dalla folla che si dimenava al ritmo del caos.
Il “puru nui” conclusivo, infine, si spense. Il gruppo, sbracciandosi in gesti di saluto dedicati alla massa accalcata lì sotto, abbandonò il palco. Questo venne occupato dal presentatore, che proclamò: “E questi erano gli Scurzuni! Straordinari! Ma proseguiamo con la nostra manifestazione dedicata alla taranta, dando spazio a...”.
Non riuscì a completare la frase. Il microfono gli era stato strappato da un tale che aveva fatto irruzione sulla scena. Un signore del tutto fuori contesto. Attempato, segaligno, abbigliato con cura. L’unica traccia di disordine nella sua figura era costituita dagli argentei capelli scarmigliati, che si agitavano mentre il loro proprietario resisteva agli assalti del presentatore. Quello saltellava tutto intorno nel tentativo di riguadagnare il microfono. Inutile. Lo sconosciuto riusciva a respingerlo con inaspettata agilità e urlava: “Vergognatevi! Avete svenduto le vostre radici! La storia del tarantismo è una storia di miseria! E voi l’avete ridotta a un fenomeno commerciale!”.
Il pubblico si era zittito all’apparizione di quell’esaltato. Di fronte alla ramanzina, prese a levare cori di scherno.
I “vattene”, gli “scemo” e i “buuu” accompagnarono l’uscita del censore, che conservò il suo contegno altero mentre veniva trascinato via dai componenti dello staff, accorsi a dare manforte al presentatore.
Quest’ultimo, brandendo il microfono riconquistato, si sforzò di assumere un tono divertito e annunciò: “Scusate per il fuoriprogramma. Ora possiamo riprendere. È il momento di ascoltare...”.

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Non si seppe mai chi sarebbe dovuto intervenire dopo. Arrivò infatti, a mozzare le parole dell’uomo, una nuova interruzione. Il terreno iniziò a ribollire, per poi sputare fuori una miriade di minuscoli ragni. Esserini rossi, verdi e neri, che risalirono zampettando su per le gambe dei giovani pigiati fino allo stremo in quell’area di campagna, invasero il palco, aggredirono il presentatore, dilagarono, investendo musicisti, collaboratori e tecnici.
Tutti avvertirono un acre pizzicore fra le cosce. Poi l’impulso, sempre più irrefrenabile, a ballare. Un imperioso comando interiore al quale la marea umana cedette, sprofondando in una danza disperata e convulsa. Movimenti meccanici, che sembravano trasmessi da fili invisibili a quelli che ormai erano stravolti in inermi pupazzi.
Il giorno dopo, i quotidiani riportarono la notizia di un’assurda tragedia. Sul luogo dell’iniziativa dedicata alla musica etnica, era stato rinvenuto un carnaio: migliaia di corpi accasciati gli uni sugli altri. Tutti coloro che avevano preso parte allo spettacolo erano morti. Le ragioni della strage erano ignote. Gli inquirenti stavano vagliando l’ipotesi che durante la kermesse fosse stata diffusa una droga sconosciuta. Da indiscrezioni, pareva che tutti avessero ballato fino a svuotarsi di ogni energia vitale.

Francesco Calè



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