Sono anni ormai che faccio lo stesso percorso

Racconto per il concorso "Premio Scheletri", 2018 - edizione 10

Sono anni ormai che faccio lo stesso percorso.
Lascio l’auto di fronte alla rimessa delle canoe. Intraprendo il sentiero: bosco alla mia sinistra, fiume sulla destra. Per lunghi tratti non incontro nessuno. Passo di fronte alla casa abbandonata, poi arrivo alla centrale idroelettrica, laggiù, nella riserva naturale. Lì, scruto le fronde degli alberi alla ricerca di qualche gufo. Appoggiata alla balaustra che da sullo strapiombo, ascolto in cuffia la mia canzone preferita, posizionata a un’ora dall’inizio della playlist. Poi torno indietro.
Sono anni ormai che faccio lo stesso percorso.
Rimessa delle canoe. Sentiero. Fiume sempre a destra e bosco sempre a sinistra. Casa abbandonata, con la porta spalancata e la bicicletta ormai arrugginita all’ingresso. Centrale, gufi. La mia canzone preferita in cuffia.
Sono anni ormai che faccio lo stesso percorso.
No, scusate. Una volta il percorso l’ho cambiato. La memoria ogni tanto si inceppa. Lascio l’auto alla rimessa delle canoe. Intraprendo il sentiero, bosco a sinistra, fiume a destra. Pioviggina. La superficie dell’acqua viene accarezzata da piccoli cerchi concentrici. Non incontro nessuno, per quaranta minuti. Quando piove è così, la gente pigra resta a casa. Sento poi uno scalpiccio alle mie spalle. Mi volto. Una figura in nero cammina ad ampia distanza. Strano, penso. I runner sono tutti vestiti di colori sgargianti, per la visibilità. Non fosse mai che un cacciatore ti scambiasse per un cervo. Le mie gambe accelerano il passo, captando qualcosa che la mia mente ignora. Resto ancorata alla razionalità, ai lunghi anni in cui mi sono convinta a uscire di casa senza il terrore perenne che possa capitare qualcosa. Che poi non succede mai niente e ti senti pure scema. Però quel rumore è entrato nel mio cervello come un tarlo.

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Mi volto di nuovo. La distanza tra me e la figura diminuita di netto. Cammina con la testa bassa. Inizio ad agitarmi, spingo sulle gambe. Non corro ancora. Prego di scorgere qualcun altro, dalla parte opposta. Un qualcuno con una bella tuta gialla rassicurante. Nessuno. Mi giro. La figura è a non più di dieci passi. Noto con orrore che ha qualcosa in mano. Un’accetta. Infine, alza il capo. Non vedo un viso. C’è solo pelle tesa, dove dovrebbero esserci gli occhi e il naso. Però, la bocca c’è. Allargata in un ghigno aguzzo.
Mi metto a correre. Poco distante, appare la casa abbandonata. Metto tutto quello che mi resta nei polpacci, sperando di aver guadagnato abbastanza terreno. Mi fiondo all’interno. È buio, nero e puzza di chiuso, ma io non ho scelta. Mi addentro nella speranza di trovare un nascondiglio, con il cuore che galoppa nel cervello e il respiro strozzato. Un sasso, o una piastrella sbeccata, mi fa poggiare il piede destro in fallo. Mi piego spezzata dalla fitta alla caviglia. Poi mi alzo di scatto. Dietro di me un rumore, un passo. Qualcuno mi tira per la treccia. In cuffia, parte la mia canzone preferita.
Sono anni ormai che faccio lo stesso percorso.

Katiuscia Napolitano



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