Quinto comandamento: "non ammazzare"

Quel pezzo di giovanottone, appoggiato con aria spavalda all’angolo della via buia e solitaria, sul dedalo di Trastevere, col berretto a sghimbescio su di un occhio, col mozzicone a sghimbescio in bocca, aveva un aspetto tutt’altro che rassicurante. Chi per combinazione fosse passato di là, a quell’ora - mezzanotte e mezza - non avrebbe potuto fare a meno di guardare sottecchi e di girare il più a largo possibile, ché non si sa mai... un teppista insomma, c’è poco da discutere.
Bisogna però dire, per la verità, proprio delle cattive intenzioni non ne aveva il ragazzo. Era uscito allora allora da una bettola, dove, in degna compagnia, fra un giro di carte e una bestemmia; aveva alzato un po’ il gomito. Alticcio alquanto dunque, nient’altro che questo: e in contempo, la giustificabile voglia di una breve sosta all’aperto per riorganizzare le idee prima di arrivare a dormire.
L’arietta frizzante di mezz’ottobre e l’ottimo avanzo di sigaro trovato a terra disponevano il suo animo a pensieri delicati. Fu per questo che lasciò passare, senza allungargli una pedata, un cane randagio annusante fra le immondizie, e non fu preso dal bisogno urgente di scapaccionare un ragazzino scalzo e freddoloso che, grattandosi la pera e le spalle, gli passò sotto il naso.
Prendere a pedate i cani, scapaccionare i ragazzi, dare urtoni alle vecchiette, masticar parolacce dietro il pizzardone, buttare il fumo in faccia allo scagnozzo, scaracchiare sui calzoni della guardia di pubblica sicurezza, eran queste le sue ordinarie quotidiane occupazioni. Si decideva, è vero, qualche volta, a sollevare sulle poderose spalle un baule alla ferrovia; ma ciò, proprio in casi estremi, vale a dire quando gli occorreva assolutamente un po’ di denaro oltre quello fornitagli giornalmente da qualche donna di mal’affare che lavorava all’ombra della sua protezione.
In galera non c’era stato ancora, ché in fondo, il bisogno di rubare, pel momento non ce l’aveva; e in quanto a lasciar andare una coltellata ben diretta sul basso ventre di un individuo, non gli era ancora capitata l’occasione propizia. Aveva, è vero, fatto a pugni, talvolta un po’ per burla, un po’ sul serio, con qualche suo camerata; ma tutto era finito con un’ammaccatura, un tantino di rosso dal naso, un’ecchimosi: bazzecole che non richiedevano l’intervento della giustizia. Eppure il prurito di fare scorrere del sangue egli lo sentiva in corpo, e in certi momenti, tale da far fatica a resistere. Si nasce con questo desiderio acuto, come si nasce poeta o artista drammatico. Gli era capitato parecchie volte di contenersi a stento dal tirare, così, senza un perché, un solenne manrovescio ad un tizio qualunque, che certamente avrebbe reagito e obbligato lui, in conseguenza, a somministrargli quattro dita del suo coltello. Questione di atavismo. Sua madre era fatta così, tanto vero che era morta al bagno penale per affari di coltello appunto. Suo padre... eh, via, suo padre! Accidenti a chi sapeva chi fosse suo padre!
Quella sera però era nelle migliori disposizioni di animo. Non avrebbe fatto male a una pulce. Si disponeva già ad andarsene quieto quieto alla cuccia, soddisfatto della breve reazione di aria fredda, che gli aveva scaricato un po’ la testa, quando sentì aprire piano piano un portoncino poco discosto, e, al lume di un fanale tremolante, vide uscire cautamente un ombra. << Il Militare! >> pensò, e sorrise leggermente, contraendo l’angolo delle labbra bruciacchiate dal rimasuglio roggio del mozzicone. Egli, pratico delle consuetudini notturne della strada, conoscitore delle sue abitatrici e dei loro frequentatori, sapeva che quasi ogni notte un alto ufficiale non molto anziano soleva andare in quella casa ad appendere furtivamente una ghirlanda a Venere Afrodite.
Oltre di lui e di quell’uomo, non un’anima per la via.
Un’idea infernale gli balenò improvvisamente nel cervello, così come un’idea melodica attraversa all’improvviso la mente di un musicista. Ghignò. Si nascose quanto più potè nell’ombra, cavò il coltello e attese.
L’individuo veniva innanzi a capo chino, tutto chiuso nel pastrano, le mani in tasca, l’andatura un po’ stanca di chi ha troppo chiesto ad una virilità prossima al tramonto.
Da un orologio lontano suonava la prima ora piccola.
I due uomini, quello nascosto nell’ombra, l’altro transitante, erano l’uno sempre meno discosto dall’altro: il primo tutt’occhi, in vedetta; il secondo raccolto in sé stesso, inconscio. Eccoli vicini... Fu un attimo. La coltellata inferta con mano sicura nella schiena, un po’ più su dell’osso sacro, ben diretta dal basso in alto, bucò netta pastrano e giacca, penetrò in cavità per tutta la lunghezza della lama. L’arma rimase infissa, come inchiodata. Il ragazzo l’abbandonò al suo destino insieme a colui che ne era, in quel momento, l’involontario possessore, e via a gambe levate per le tortuosità oscure, mentre i gemiti del caduto, seguiti al primo urlo strozzato, si perdevano in lontananza.
Un quarto d’ora dopo, egli era nella sua tana. Russò beatamente, a pancia all’aria, fino a sole alto.

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Un meriggio sfolgorante nella lietezza dei primi effluvi di primavera salutava il viaggio per il confine del nostro ragazzo, soldato da sei mesi.
Una folla enorme era alla stazione ad acclamare i partenti infiorati e chiassosi. La guerra ama circondarsi di suoni, di canti, di fiori, di evviva, quasi a nascondere il suo aspetto terribile sotto una maschera di entusiasmo, di gaiezza.
Il bravo giovanotto, allorché era stato preso e insaccato in un cappottane da fantaccino per servire la patria, aveva provato quell’impressione piacevole e lieta che prova un cane spelacchiato ma libero per la improvvisa stretta al collo lasciatagli dall’accalappiatore.
Non essendo però riuscito a ribellarsi, si adattò piano piano alla nuova vita. Scoppiata la guerra e destinato alla frontiera, esultò. La guerra era per lui nient’altro che il diritto di ammazzare senza finire in galera. Egli non sapeva precisamente perché si andava a combattere, quasi quasi non sapeva contro chi si andasse. Ciò però lo interessava ben poco. Qualunque potesse essere la causa di tanta ira di Dio, egli non capiva nei panni dalla gioia al pensiero della grande scorpacciata che avrebbe fatta di questi ignoti nemici buttatigli fra le mani dalla sua buona stella di ragazzo avido di sangue e di ammazzamenti. E partì per il confine come per una caccia grossa.
... Il giorno in cui fece alle prime fucilate fu il più bello della sua vita. Per quanto non gli fosse dato di vedere gli effetti del suo tiro, pure il pensiero di avere di faccia non un bersaglio inerte, ma della carne viva e palpitante, lo entusiasmava.
Più vedeva compagni attorno a sé cadere fra sangue e grida laceranti, più sentiva nella sua testa scoppiare gli srhapnells più la sua anima feroce di bestia umana godeva.
Ma fu ad un assalto a corpo a corpo che divenne un eroe. Se D’annunzio l’avesse visto in quella circostanza, avrebbe scritta una delle sue migliori odi per lui.
Allorché si lanciò, fra i primi, baionetta in canna, coll’arma stretta nel pugno ferreo che non conosceva tremito, egli colpì di meraviglia i suoi vicini. In breve fu avanti a tutti. Gli altri, soggiogati in un subito, gli eran dietro come dietro a un condottiero. L’idea che fra pochi momenti la sua breve lama, rutilante ai primi raggi di un bel sole di aprile, avrebbe provata la voluttà di una immersione nelle visceri di un uomo, il primo venutogli di contro, gli dava le vertigini...
E fu il primo a colpire. Un ragazzetto biondo, diafano, cogli occhi del colore del cielo, con nel volto uno spasimo di paura, gli capitò a tiro: lo passò da parte a parte con un urlo selvaggio, e lo lasciò stecchito sul terreno. Continuò la cerca, vedendo tutto rosso. Ecco un altro. Via! Un altro ancora. E poi un altro. Via, via tutti! Cadevano sotto i suoi colpi sicuri, precisi, ben aggiustati, inesorabili come poveri esseri impotenti sotto il maglio del destino. Cercava i rimasti, sempre innanzi, facendo il vuoto attorno a sé, primo fra i primi, terribile, magnifico, sublime. In mezzo a quel carnaio orrido, nauseabondo egli era qualche cosa come una tigre accecata dal sangue fra gli avanzi pietosi di una carneficina. Nulla più di umano in lui, nulla! Fin colla bocca, coi denti avrebbe sbranato, tanto sentiva il suo istinto feroce salirgli, salirgli alla testa, conquistarlo tutto!
I compagni suggestionati, ammaliati, inebriati, lo seguivano accendendo il loro alla fiamma meravigliosa del suo coraggio senza uguali. E nel vederlo così bello, invulnerabile come un Dio di sterminio e di morte, gli decretarono in loro cuori la palma.
Quando, stanco alfine di tanto sadismo bellico, si fermò fra le trincee nemiche, conquistate dal suo valore, i pochi superstiti, ansanti, spasimanti, ma vincitori, gli si piegarono davanti e lo acclamarono eroe.

***

Pochi giorni dopo, una cerimonia semplice ma solenne: un generale, fra la commozione di cento e cento suoi commilitoni, gli appendeva al petto una medaglia dei valorosi; ringraziandolo a nome della Patria, stringendogli la mano, baciandolo su di una guancia. Egli lasciò fare in silenzio, ma... Dio sa quanto faticò a trattenere un forte scroscio di risa... Quel generale che gli era lì di faccia che gli diceva tante belle cose... già, proprio... c’era poco da sbagliarsi: era quello di quella notte, quello della coltellata...

Gustavo Lastrucci

Gustavo Lastrucci (Cerreto Sannita, 4 agosto 1880, Napoli 12 novembre 1968), avvocato, ha diretto agli inizi del secolo la sede Cagliaritana del Banco di Napoli, occupandosi di credito agricolo e rivestendo inoltre la carica di console onorario del Portogallo in Cagliari. Autore precoce ed eclettico, pubblica diciottenne gli atti della conferenza sulla Poesia tenuta in Napoli al Circolo Filotecnico il 21 marzo 1897. Successivamente produce la raccolta di versi “Rosa mistica”, (Napoli 1901), collabora a quotidiani sardi con articoli e novelle, pubblica con lo pseudonimo Cecco D’Alma il dramma lirico “Mala Notte” su musiche di Salvatore Sassano, firma a proprio nome il saggio giuridico “Il divieto di esportazione dei formaggi e la produzione sarda” (Cagliari, 1911) e il volume “Indirizzario di Roma” (Roma, 1934). Il racconto “Quinto comandamento: non ammazzare”, è un inedito del 1913.



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