Oppio

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2021 - edizione 20

Non appena la salita diventava impegnativa Adrian sbuffava, interrompeva la marcia e piagnucolava stridendo come il cardine di una vecchia porta.
Come biasimarlo? Le sue cattive abitudini gli avevano posato sui lombi almeno cinquanta chili di grasso.
La guida thailandese, un ragazzetto nerboruto di nome Pu, ci spronava rivolgendoci un sorriso che Adrian traduceva come beffardo; «Maledetto cinese» brontolava col fiato corto.
«Adrian,» dicevo io rimproverandolo, «Pu è nato a Chiang Mai, non c’entra nulla con la Cina»
«Ride come un cinese quindi è un cinese» rispondeva torvo il mio amico rimettendosi in marcia.
Quando raggiungemmo la cima del sentiero Adrian era esausto e il collo gli si era gonfiato rendendolo simile ad un orso.
La nostra guida invece saltellava intonando una litania che, secondo lui, avrebbe dovuto alleviarci la fatica.
«Canta pure ‘sto dannato cinese» diceva Adrian masticando la bile.
Il sentiero, ora piano, ci condusse ad un gruppo di capanne desolate: la nostra destinazione.

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Pu entrò in una capanna e uscì recando una pipa da oppio già carica: io e Adrian eravamo venuti fin quassù per questo.
Iniziammo ad aspirare il fumo con voluttà fino a che cademmo a terra inermi; eravamo coscienti ma i nostri muscoli completamente paralizzati.
Pu rientrò nella capanna e questa volta uscì stringendo un seghetto da chirurgo; si diresse verso Adrian, gli sfilò gli scarponi e iniziò a insistere col seghetto sulla caviglia. La lama incise la carne e scese in profondo raggiungendo l’osso; proseguì stridendo fino a che il piede cadde a terra e poi si spostò sotto il ginocchio per ripetere l’operazione con la parte superiore della gamba.
Provai a contare tutti i pezzi caduti al suolo ma dovetti fermarmi perché era arrivato il mio turno.

Se fossi sopravvissuto avrei scritto la mia storia esattamente in questo modo.

Alberto Bellocchio



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