Roberto spalancò la porta a vetri del Boccale d’Oro e si avviò nel breve corridoio semibuio. Strusciò le dita sul muro e girò l’angolo, tuffandosi nel pub illuminato da una luce calda che si rifletteva sugli interni di legno lucido. I libri ingialliti, accatastati in disordine sulle mensole, donavano un’atmosfera accogliente, quasi casalinga.
I tavoli erano colmi di gente seduta a bere, perlopiù chiassosi studenti universitari. I tanti giovani squattrinati affollavano il locale, sorseggiando bicchieri di vino di scarsa qualità. Roberto invece preferiva la birra.
E aveva tanta sete.
Avvertì, dal momento in cui era entrato, un fastidioso pizzicore in bocca, la gola secca. Una terribile voglia di inumidirsi la lingua.
Avanzò a passo deciso, il mento all’insù. Tamburellò le dita su ogni tavolo occupato, sotto gli occhi sbalorditi dei clienti. Il grosso anello d’argento a forma di teschio intimidiva chiunque. Così come la sua lunga barba biondiccia, i capelli rasati a zero e quella cicatrice sullo zigomo, trofeo di una rissa finita male.
Quando entrava al pub si sentiva un vip, un divo. Il padrone del mondo intero.
Simone e Mario lo stavano aspettando al solito tavolo vicino al bancone. I suoi amici avevano già ordinato due birre medie e se le erano già quasi scolate.
Anche lui aveva una voglia tremenda di bere.
Roberto si passò la lingua sul palato asciutto, ma non trovò sollievo, anzi, quella sensazione sgradevole lo stava iniziando a esasperare. L’interno della bocca gli pareva un canyon arido e polveroso.
Voleva una Guinness.
«Oh, ecco Rob.» Mario alzò il braccio. Se ne stava seduto con la camicia rossa a quadri mezza sbottonata, una canotta bianca con un largo collo stondato e la folta nera peluria arricciolata sul petto. A Roberto gli faceva venire il vomito.
Simone pulì le lenti appannate degli occhiali e gli lanciò un’occhiataccia. «Oh Roberto, quand’è che la farai finita di fare la tua solita entrata da spaccone?» Simone era magrolino, il più composto ed educato dei tre. «È strettamente necessario picchiettare sui tavoli dove siedono le altre persone?»
Strinse lo schienale della sedia, sulle dita dell’altra mano portava lisci anelli di ottone. Strusciò la sedia a terra, la girò al contrario e si mise a sedere, con i gomiti appoggiati allo schienale.
«Buonasera, gentaglia.» Si passò la lingua sui denti asciutti. Un fastidioso pastone di saliva gli fece venire voglia di sputare. «La mia birra dov’è? Non l’avete ancora ordinata?»
«Guarda che la puoi chiedere anche da solo, eh.» Simone, puntiglioso come al solito, gli indicò la strada per il bancone.
Solo in quel momento si accorse di una ragazza seduta sullo sgabello di fronte al barista, le gambe nude accavallate. Indossava un abito di velluto, verde. Inanellati boccoli biondi le cadevano sulla schiena scoperta.
Non riusciva a vederla bene in viso, ma si immaginò già la bocca carnosa che gli mordeva il labbro, la lingua morbida e succosa della ragazza nella sua bocca. Un po' di saliva gli avrebbe ridato sollievo, anche più della birra ghiacciata. «E quella chi cazzo è?»
Mario si grattò la pancia. «Ci chiedevamo anche noi cosa portasse una bella biondona in un posto del genere… si sarà persa?»
Simone accavallò una gamba sopra l’altra e incrociò le dita sul ginocchio. «Io e Mario stavamo dicendo, proprio prima che arrivassi, che una bella donna come lei non uscirebbe mai con uno come te.»
Roberto si aggrappò con forza alla sedia, le vene sul dorso delle mani si gonfiarono. «Ah, invece uscirebbe con uno di voi due, immagino.»
Scoppiarono a ridere tutti e tre.
«Perché non facciamo una scommessa?» Mario tirò fuori il portafoglio e lo batté sul tavolo.
Roberto socchiuse gli occhi, lo sguardo sfidante. «Che tipo di scommessa?»
«Se vai da lei, gli chiedi di uscire e ti dice di sì, ti pago tutte le birre che vuoi. Per tutto il mese!»
«Allora non dovrai sborsare un euro, Mario!» Simone ridacchiò, battendosi la mano sulla gamba.
INCUBO POST-APOCALITTICO DI TIM CURRAN
Dopo l’olocausto nucleare, un gruppo di sopravvissuti si rifugia nel bunker progettato da Lilian, un nascondiglio sicuro fatto di acciaio e piombo... o così sembra. Con un ritmo incalzante e un’atmosfera claustrofobica, Aftermath incalza tra spettri di follia e oscuri desideri, trascinando il lettore in un’odissea dove la più grande minaccia non è la radioattività… ma il male che si cela nell’animo umano. Disponibile in ebook e cartaceo entrambi illustrati.
Roberto, oltre che ad avere tanta sete, iniziò a sentire un brivido in mezzo alle gambe. Pian piano salì fino alla pancia. L’adrenalina entrò in circolo, non si sarebbe tirato indietro. «Ci sto, ho già la vittoria in pugno.» Si strofinò le mani callose. «Io quella tipa stasera me la faccio, garantito.»
«Il solito presuntuoso.» Simone scosse il capo. «Cosa te lo fa credere?»
«Andiamo, ragazzi. È sicuramente in cerca di avventure notturne, di sesso selvaggio. Guardatela! Servirà davvero poco per farmi aprire le gambe.» Mario e Simone si scambiarono uno sguardo perplesso.
«Ma cosa ci sto a fare ancora qui a parlare con voi.» Roberto si alzò di scatto, strusciò la sedia e si girò verso il bancone.
La ragazza si voltò verso di lui. Il suo viso era proprio come se lo era immaginato. Labbra carnose colorate di un rosso acceso, guance rosate, un bel nasino all’insù e delle sopracciglia finissime.
Si aprì la zip della giacca di pelle e si palpeggiò il pacco. «Lei è qui per me. Non vedete come mi guarda?» La ragazza gli lanciò un sorriso provocante. «Visto? Che vi avevo detto, ragazzi?»
I due amici ci rimasero di stucco.
Roberto si alzò in piedi, tirò in dentro la pancia e si sistemò i pantaloni di jeans in vita. «Bene ragazzi, io vado. Quella tipa me la mangio, stasera.» Girò i tacchi e si avviò verso la bionda.
Lei stava sorseggiando un calice di vino bianco. L’impronta del rossetto sul calice di vetro lo fece arrapare di brutto. Oh, quanto avrebbe voluto sbatterla al muro e infilargli la lingua in bocca, in un vortice di lingue umide di saliva.
Trascinò a sé lo sgabello libero vicino alla ragazza. «Hei, bella, è occupato questo posto?»
La ragazza scosse la testa con sensualità, i capelli biondi ondularono davanti agli occhi. «Anche se lo fosse, te lo sei già preso.» La sua voce era calda e profonda. Le uscì, poi, una risatina provocante.
Roberto si era sempre sognato di farsi una donna così affascinante.
Era la sua occasione.
Si sedette accanto a lei, con fare spavaldo da vero maschio alfa. «Come ti chiami, bella?»
Lei appoggiò il calice sul bancone e gli porse la mano. Aveva le unghie colorate di un verde intenso, la mano delicata, come un fuscello. «Mi chiamo Erica, e tu?»
Le avvicinò la grossa mano piena di anelli, la sua sembrava, invece, un massiccio e ruvido ciocco di legno. «Sono Roberto, molto piacere. Ma dimmi, cosa ci fa una bella donna come te in un locale pieno di studentelli sfigati? Se sei in cerca di compagnia, allora stasera sei fortunata. Adesso puoi fare la conoscenza di un vero uomo.»
Roberto, con la coda dell’occhio, vide Simone e Mario sgomitarsi. Tronfio, fece loro l’occhiolino. Avrebbe vinto la scommessa?
Erica si morse il labbro inferiore. «In effetti, sì. Sono tutta sola stasera.»
Roberto fu invaso da un fremito. Aveva una gran voglia di baciarla. Ma prevalse, sempre più forte, quella sensazione di siccità in bocca, come se si fosse mangiato un cucchiaio pieno di sabbia granulosa e la stesse masticando.
Schioccò le dita e il barista subito si voltò. «Una Guinness, il boccale più grande che hai.»
Sorrise alla ragazza. Lei, abbassò un attimo gli occhi in mezzo alle gambe di Roberto, mettendo in evidenza l’ombretto verde brillantinoso.
Il barista gli spillò subito la birra e appoggiò il boccale sul bancone di legno. La schiuma ondeggiò sulla superficie della birra scura come una ballerina di danza caraibica.
Strinse il manico di vetro, gli anelli tintinnarono sul boccale. Si tracannò mezzo di litro di birra in una sola avida sorsata.
Erica lo guardò con uno sguardo profondo. «Wow! Avevi molta sete, eh.»
Roberto appoggiò il boccale. Sentì la schiuma sulle labbra colargli sul mento, insozzandosi la barba. «Una sete tremenda...»
Erica lo squadrò dalla testa ai piedi e si passò, con lentezza, la lingua sul labbro superiore. «Mmh, avresti voglia di bagnarti le labbra con qualcosa di più… gustoso?» La ragazza scavallò le gambe e le divaricò appena.
Roberto rimase a bocca aperta, si strofinò il mento umidiccio con il dorso della mano.
La biondona lo voleva, lo desiderava.
«Ma certo, tesoro. Perché non mi aspetti nel bagno? Arrivo tra un momento.»
«Hei, ma per chi mi hai presa? Non sono quel tipo di donna.»
Roberto sgranò gli occhi. Merda! Se l’era giocata male.
«Senti, abito proprio qua dietro». Erica scese dallo sgabello con un movimento felino. «Sali a casa mia?»
Non se lo fece dire due volte.
Si rivolse al barista. «La mia birra la pagano quei due laggiù.» Simone e Mario alzarono i pollici al cielo e sfoggiarono i loro migliori sorrisi.
Si alzò in piedi e seguì Erica verso l’uscita.
Roberto aveva vinto la scommessa, ma soprattutto, si sarebbe fatto una bella scopata.
Le porte dell’ascensore si chiusero. Roberto infilò la mano dietro la testa di Erica, tra i voluminosi capelli biondi. Incollò le sue labbra a quelle della ragazza.
Oh, come erano morbide.
Le strizzò il culo, l’anello a forma di teschio scorreva in mezzo alle natiche di Erica. Le loro lingue si scambiavano travolgenti intrecci di saliva. Il suo cazzo duro si strofinava tra le gambe di lei, e spingeva. Poteva sentire tutto il calore della sua fica bagnata.
Il suono metallico dell’ascensore li avvisò dell’arrivo al piano.
Si ricomposero alla meglio ed Erica fece strada verso il suo appartamento, alla fine di un lungo corridoio. La seguiva con gli occhi fissi sul culo della ragazza che si muoveva quasi a un ritmo ipnotico.
Erica si fermò davanti al portone e infilò la chiave nella serratura.
Roberto avvertì nuovamente quel forte senso di aridità in gola. Com’era possibile? Si era da poco fatto una Guinness, aveva appena scambiato fluidi di saliva con quelli della ragazza.
Si passò la lingua tra i denti, non trovava pace. Sentì qualcosa di duro, come tante piccole afte dolenti. «Ma che cazz...» Esitò sull’uscio di casa.
«Vieni, entra.» La ragazza varcò la soglia e si voltò. «Che ci fai lì impalato? Non vorrai mica farmi tornare al pub per trovare qualcun altro in grado di soddisfarmi!»
Non si sentiva benissimo, ma avrebbe potuto rinunciare?
Mosse un passo dentro casa. Le luci erano spente e da una finestra spalancata filtrava la luce bluastra della luna. L’interno dell’appartamento mostrava figure indistinguibili nell’ombra. Che cosa erano tutte quelle alte sagome che intravedeva?
Un brivido iniziò a farsi strada lungo la schiena. «Perché non accendiamo la luce? Così ti vedo meglio.» C’era qualcosa di strano in quell’appartamento. Ma soprattutto sulla sua lingua. Era diventata ruvida, e iniziò a dolergli. Le afte si facevano sempre più sporgenti, quasi taglienti.
«Come preferisci, ti accontento subito.» Erica accese la luce del soggiorno.
Roberto strizzò gli occhi per un secondo. Quando li riaprì rimase a bocca aperta. Decine di cactus alti quanto lui erano disposti uno accanto all’altro per tutto il perimetro del soggiorno.
«Ma cfhe diafvolo di fposto è fquesto?» Gli uscì un biascichio quasi irriconoscibile dalla bocca, una parlata tagliente. Dalle afte sulla lingua spuntò qualcosa di pungente. Il sapore ferroso del sangue gli invase la bocca. «Ahi!»
Si passò la mano sulla testa rasata. I capelli erano cresciuti velocemente e… pungevano.
I calli sulle mani si aprirono come squarci sulla terra secca e iniziarono a sbucargli lunghi e appuntiti aghi giallognoli. Il suo corpo si stava riempiendo di aculei.
Il dolore era insopportabile.
Erica si avvicinò, gli mise una mano sulla spalla. «Ti piacciono le mie piante? Stavo pensando di metterti lì, tra Nicola e Valerio. Ehm, perdonami, volevo dire, tra l’Euphorbia e il Cereus. Che ne pensi?»
Si sentì trafiggere la pelle dall’interno. Centinaia di aghi spuntarono sulla pelle mutata, stava diventando verde.
«Vado a prendere la terra e il vaso. Come sono contenta! Ah, lo dico anche a te, non ti preoccupare, le piante grasse resistono diverse settimane senza bere. Non patirai più la sete.»
Si sentì immobilizzato, non poteva più muoversi. Stava mettendo le radici?
Erica sfilò il teschio su quello che rimaneva della sua mano e lo appoggiò sul grosso ago in mezzo alle gambe.
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