La città che uccide - Storia di un serial killer

Ciudad Juarez, Messico, 1999
Da quasi un’ora Alonso attende all’aperto. Sebbene sia riuscito a ripararsi dalla violenza di un sole che sembra distante appena poche miglia, l’afa rimane insopportabile. La camicia che indossa, sudata e appiccicata alla pelle bollente, da azzurra è diventata blu notte.
Osserva i detenuti comuni, oltre la recinzione metallica: morti viventi che si trascinano stanchi in mezzo alla polvere. Solo un gruppo di guardie lo separa da quel mare di occhi ferini, rivolti verso di lui: spacciatori, papponi, stupratori, assassini.
Nessuno che gli desti particolare interesse. L’unico sguardo che è ansioso di incrociare non si trova lì in mezzo ma nella cella di massima sicurezza.
Alonso sospira, ripensando al percorso fatto per arrivare in quel cortile: già detesta quella assurda città.
Ciudad Juarez, terra di confine, distante poche miglia da El Paso, Texas.
La cloaca del Messico, sovrappopolata a causa di una forte immigrazione proveniente da tutto il Paese. Perché è qui che molte aziende americane hanno spostato le sedi operative, ingolosite da un fisco inesistente. Ed è qui che molti operai messicani si sono trasferiti, per avere un posto di lavoro sicuro e la possibilità di fare la traversata oltre frontiera verso il sogno americano. Operai che sognano di diventare uomini d’affari e giovani ragazze che aspirano a un ruolo in una grande produzione cinematografica.
Se non vengono prima uccise, si intende.
Come Alva Chavira Farel, trovata priva di vita con evidenti segni di torture.
Solo la prima di altre decine, centinaia di vittime.

«È inammissibile che io mi sia fatto una nottata in viaggio per venire fin qui e che ora debba aspettare i comodi altrui.»
«Ordini del direttore. Ci sono quelli della Compagnia Petrolifera dentro. Se devono incontrarlo hanno la priorità» scrolla le spalle la guardia, poi aggiunge: «Quando ci chiamano per vederlo, fossero anche le tre del mattino, noi scattiamo. Sharif è un mago della chimica»
«Non è un caso che la Compagnia si sia messa di mezzo anche quando doveva essere rispedito in Egitto: lo considerano essenziale per i loro progetti. Tra l’altro, sono passati dal pagarlo profumatamente a potersene servire gratis, ora che è stato buttato qui a marcire. Guadagno su guadagno, per quelli dell’oro nero» conclude il profiler.
«Pagano altri, ora» sorride il secondino.

«Di là?» Chiede il visitatore imboccando un lungo corridoio.
«Un angolo dimenticato dagli uomini, in un luogo dimenticato da Dio» replica l’accompagnatore.
«Non da Satana» chiude il discorso Alonso riferendosi a El Diablo, il capo della banda di satanisti che da mesi semina morte tra le giovani donne messicane. Los Rebelos, così si fanno chiamare.
La pesante porta di metallo si apre: il prigioniero è pronto a ricevere la sua visita.
Alonso si siede, separato dal mostro solo da una spessa lastra di vetro antiproiettile. Alza l’apparecchio per comunicare, ma è l’altro a iniziare.
«Ho appena terminato di esaminare una questione complessa. Si sbrighi, vorrei andare a dormire.»
Abdel Latif Sharif presenta marcati tratti mediorientali: carnagione olivastra, capelli neri e folti, baffi ben tenuti. I suoi occhi, luccicanti dietro le lenti dei grandi occhiali marroni, sono del colore del petrolio, la redditizia materia prima che l’ha reso uno stimato chimico.
«Non darti troppa importanza, per me non sei che un volgare assassino.»
Alonso non controlla i nervi.
«Un volgare assassino molto richiesto, a quanto pare.»
«Non giocare con me. Sono qui perché non credo alla storiella sui Ribelli. Per quale ragione uno come El Diablo dovrebbe metterti a disposizione la sua banda?» Provoca il poliziotto.
«Siamo impreparati, vedo. Circola una nuova versione: El Diablo avrebbe ucciso quelle ragazze dopo la mia cattura per depistaggio. Sono diventato io solo il serial killer che cercate. Io controllo Los Rebelos da dietro le sbarre. Quindi potete dormire sonni tranquilli: prendete tutti i membri della banda, sbatteteli qui con me, e il caso sarà risolto.»
Sharif è calmo, impassibile.
«Risolto un accidente! Trecento ragazze tra i quattordici e i trent’anni in dieci anni. Conosco nei dettagli la sua vita, Sharif. I primi stupri da lei compiuti furono a Palm Beach, ormai più di quindici anni fa. Poi venne condannato a Gainesville, per percosse alla sua compagna. Senza contare gli arresti per guida in stato di ebbrezza e molestie sessuali degli anni successivi in New Jersey, Florida, Texas. Fino all’omicidio di Sandra Miller. Non ci sono dubbi che lei sia un ubriacone, un maniaco sessuale, un omicida. Tuttavia c’è ben altro dietro le morti di questa città infernale.»
«Pare l’FBI abbia scomodato il migliore tra i suoi profiler, su a Quantico, ma non mi sottovaluti. Non sono solo il delinquente che ha appena descritto. Sono un uomo piuttosto... complesso, ecco» sogghigna con aria di sfida l’egiziano.
«Siamo in tre, e tutti ci stiamo occupando del suo caso, ma io sono stato scelto per parlarle direttamente. Presumo di essere considerato il migliore, quindi, come lo è lei del resto. Il punto è un altro. In cosa è il migliore, Sharif? Nella chimica soltanto, o anche... nell’omicidio?»

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Negli anni Novanta a Ciudad Juarez, Messico, si assistette a una vera e propria carneficina. I numeri ufficiali indicano in più di trecento i cadaveri rinvenuti; giovani, anche minorenni, ritrovate senza vita orribilmente sfigurate, picchiate, alcune con un seno asportato.
Le autorità messicane brancolarono a lungo nel buio tanto che dovette scendere in campo anche l’FBI. Ma la polizia del posto sembrava interessata a trovare un colpevole da dare in pasto all’opinione pubblica più che a ricercare la verità. Così si arrivò all’arresto del presunto responsabile: Abdel Latif Sharif, fuggito in Messico dagli Stati Uniti, uomo dalla personalità duplice, dal carisma e dal fascino indiscusso, dall’intelligenza geniale.
Sharif fu dipinto come un Hannibal Lecter, genio del male capace di qualsiasi azione pur di soddisfare la sua sete di sangue.
Tuttavia, sebbene Sharif sia ritenuto davvero uno spietato serial killer, dei 300 omicidi, solo 40 portavano davvero “la sua firma” (un capezzolo strappato) e sono a lui attribuibili.
E gli altri 260?
100 furono probabilmente dovuti a papponi arrabbiati, clienti di prostitute non disposti a pagare, ragazze “corriere” fatte sparire dai trafficanti di droga.
Almeno 20 invece furono opera della banda Los Rebelos, satanisti capeggiati da un sinistro personaggio, soprannominato, non a caso, El Diablo.
Ma il vero responsabile fu forse il caos che imperversava a Ciudad Juarez: le vittime, ragazzine povere, erano carne da macello utile agli scopi più disumani.
Fu Sharif, poco prima di morire, nel 2006, a fare il nome di un influente personaggio legato ai vertici della polizia messicana e a giri di trapianti di organi e altre nefandezze di ogni sorta.
L’egiziano non era un santo, questo tutti lo sapevano. Tuttavia non poteva aver commesso da solo una tale quantità di assassinii. Se non altro perché, anche dopo che fu arrestato, le ragazze continuarono a morire per mano della banda di El Diablo.
E il fatto che la polizia messicana identificasse ancora Sharif come mandante ha creato molti interrogativi: possibile che un farabutto come El Diablo prendesse ordini dal chimico egiziano? E per quale ragione?
Ancora. Come faceva Sharif a comunicare con i Ribelli e quando avrebbe impartito l’ordine di uccidere strappando un capezzolo o asportando un seno per confondere le carte?
Insomma, più ombre che luci su questo caso, risolto in modo sbrigativo dalle autorità messicane, forse per coprire qualcosa di più grave.
Abel Latif Sharif fu il perfetto capro espiatorio, avendo egli tutte le caratteristiche del serial killer.
1) Aveva subìto abusi sessuali in tenera età.
Nato in Egitto nel 1947, per sua stessa ammissione ebbe un’infanzia tormentata, vittima di ripetute violenze da parte del padre e degli zii.
2) Aveva sviluppato l’attitudine al crimine e l’interesse per un particolare tipo di vittima.
Sharif abbandonò il Paese natale, povero di opportunità per un intelletto brillante come il suo, ed emigrò negli Stati Uniti nel 1970. Trascorse i primi anni a New York: alcol e ragazze (meglio se molto giovani) erano il suo passatempo preferito. Più di una volta venne fermato dalle forze dell’ordine in stato d’ebbrezza e numerose furono le sue conquiste amorose. Sappiamo anche che perse il suo primo posto di lavoro dopo essere stato accusato di truffa e fu costretto a trasferirsi in Pennsylvania.
3) Praticava torture su animali.
A New Hope, Sharif si appassionò alla caccia, ma non si accontentava di abbattere a colpi di fucile le sue prede: egli utilizzava armi da taglio per torturarle.
4) Era uno stupratore.
Sharif nel 1981 trovò la sua strada a livello lavorativo: asso dell’ingegneria chimica, venne assunto da un’importante azienda in Florida. A Palm Beach commise i primi stupri su giovani ragazze. Pare piacesse alle donne, motivo per il quale non aveva problemi a uscire con numerose partner. Tuttavia, il nostro non si accontentava di un normale corteggiamento...
Fu incriminato per violenze, stupro e omicidio.
Sharif si sposò ma la relazione terminò in seguito a episodi di percosse sulla moglie.
Fallito il suo matrimonio, passò dal corteggiare le ragazze all’aggredirle direttamente mentre passeggiavano ignare. Tre furono le accuse di stupro nei suoi confronti.
5) Era un assassino
Sharif si era già reso colpevole dell’omicidio di una trentenne Sandra Miller.
Nel 1983 venne condannato a una pena detentiva di sei anni da scontare in Florida e solo un anno dopo tentò di evadere dal carcere.
La sua personalità doppia si completò in questi anni anche se tutto il marcio della sua anima sembrava farsi da parte quando la brillantezza del suo cervello lo riportava alla passione per la chimica. In prigione le compagnie petrolifere continuarono a commissionargli lavori. Sharif era ritenuto prezioso, insostituibile, una grande fonte di guadagno per i signori del petrolio.
Nel 1989 venne rilasciato per essere rimpatriato in Egitto ma il procedimento venne bloccato: i potenti datori di lavoro del chimico non avevano nessuna intenzione di privarsi del suo talento.
Sempre diviso tra alcol e lavoro, Sharif ci ricascò e, nel 1991, venne arrestato ancora per guida in stato di ubriachezza. La recidiva non giocò certo a suo favore, così abbandonò gli Stati Uniti e scappò in Messico, stabilendosi poco dopo la frontiera, a Ciudad Juarez. Luogo perfetto per la caccia, popolato da anime sole, operaie sottopagate, ragazze desiderose di trovare un passaggio per gli Stati Uniti, donne abbandonatesi alla prostituzione e alla droga. Corpi disponibili che nessuno avrebbe mai reclamato.
L’eccidio iniziò (altra circostanza a lui sfavorevole) proprio poco dopo il trasferimento di Sharif. Il primo corpo ritrovato risaliva al 1993; si trattava della giovanissima Alva Chavira Farel. Prima di essere stata strangolata fu stuprata. Nel giro di due anni i cadaveri diventarono quaranta, tutti uccisi con modalità simili.
Il lettore può a questo punto ben comprendere come Sharif fosse il perfetto indiziato per la polizia messicana: il mostro era servito.
Nel 1996 fu incarcerato con l’accusa di essere uno dei più spietati serial killer della storia.
Tuttavia anche con Sharif dietro le sbarre, gli omicidi continuarono, tanto che i vertici della polizia messicana furono obbligati a riprendere le indagini. Tutti gli indizi portarono a tale Armendariz, in arte El Diablo, capo della banda Los Rebelos, motociclisti dediti a riti satanici.
Sharif venne accusato subito di essere il mandante della strage: avrebbe pagato El Diablo affinché scatenasse i suoi uomini a uccidere in modo simile al suo, per fare cadere le accuse nei suoi confronti.
Incredibilmente l’opinione pubblica sembrò soddisfatta di sapere che Sharif era ancora una volta il colpevole e non si fece molte domande.
Il governo messicano tuttavia capì di non poter arrivare a capo dell’enigma e chiese aiuto alla squadra speciale dei profiler FBI di Quantico i quali stabilirono che le 300 vittime, come abbiamo visto, erano state uccise da mani differenti: alcune dalla criminalità, altre da Sharif, altre da El Diablo e altre ancora da una banda di serial killer satanisti americana, che agiva indisturbata varcando il confine ogni volta in cerca di una nuova preda.
Nonostante questa ricostruzione, l’enigma intorno al personaggio Abdel Latif Sharif rimane tutt’altro che risolto.

Giuliano Conconi



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