La solitudine del Vampiro nella foresta di cemento

Il sole tramontava, rosso come sangue sul rovente asfalto di fine estate. Il vecchio sedeva a una panchina, all’ombra di un grande albero, nessuno sapeva da quanto tempo fosse lì, non era stato visto da anima viva, un reietto, un invisibile di cui non si cura neanche un passante.
Osservava il campetto da basket, tutto in cemento, di fronte a lui, cinto da pali gialli e una rete verde arrugginita e sfondata. Immobile fissava i ragazzi giocare, adolescenti sudati che tiravano al canestro e ragazzine che pattinavano intorno a loro come mosche ronzanti su una carogna.
Ammirava i ragazzini con un leggero sorriso sulle labbra, dietro gli antiquati occhiali da sole il suo sguardo era simile a quello di una faina che da lontano, ma abbastanza vicino da avere la bava alla bocca, tiene d’occhio le grasse galline che svolazzano goffe in un pollaio, in attesa del momento giusto in cui ingozzarsi spargendo in un tetro banchetto piume insanguinate.
Ormai il sole era svanito in quella desolazione d’asfalto lasciando spazio ad un violaceo crepuscolo, solo in cielo tra nubi grigie regnava una scia rossa morente. Allora il vecchio si alzò dirigendosi verso il campo di cemento, ancora il fuoco del giorno, di cui l’asfalto era impregnato, si innalzava da esso, liberando vampe che lo investivano in ondate veementi.

Le ragazze erano mezze nude, si potrebbe dire in mutande, vedeva la carne guizzare, tremula e invitante. I muscoli tonici delle gambe levigate, l’odore pregnante del sudore adolescenziale che per lui era come una spezia impareggiabile.
Un ragazzo alto dall’aspetto di un rapper lo urtò facendogli cadere gli occhiali da sole, la figura esile e trasandata del vecchio si chinò per raccoglierli.
“Che cazzo vuoi vecchio bavoso? Guardi le nostre ragazze? Vattene a fanculo e gira a largo da qui!”
Avrebbe voluto saltargli in faccia e mangiargli quel volto arrogante, ma non poteva, poteva solo incolpare sé stesso per essere uscito così presto. Tutto da attribuire alla noia e alla sua attuale, squallida sistemazione che non gli consentiva svaghi.
Così si allontanò tra le risate di scherno delle ragazze.

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“Bravo vattene! Ci scommetto che avresti tirato fuori l’uccello e avresti cominciato a menartelo qui davanti a tutti vecchio pervertito!”
Dietro all’albero dove c’era la panchina vi era un terreno incolto e brullo che conduceva a un declivio, che a sua volta portava a un fosso di edera ed erbacce malsane, lì sorgeva una baracca fatiscente e abbandonata, lui viveva in quel posto, o meglio ci si nascondeva, in completa decadenza. Tra ratti, vermi e larve consumava il suo sonno mattutino, nel tardo pomeriggio si destava affamato e soprattutto in estate l’attesa della notte era insopportabile.
Stava per compiere un errore fatale, quei ragazzi erano così pericolosamente vicini al suo nascondiglio, come quando rubò accanto alla panchina la carrozzina con dentro il neonato, nonostante il pasto sublime come non ne consumava da anni fu un miracolo che polizia, pompieri e volontari non lo stanarono da quel fosso impervio in cui rimase nascosto per giorni mangiando topi e luridi insetti, non voleva ripetere quella terrificante esperienza.

Si diresse allora verso la fermata dell’autobus che dalla periferia lo condusse nella cittadina vicina. Scese in una zona malfamata e buia, sotto una sopraelevata che faceva da tetto a molti reietti tra lampioni tremolanti intorno ai quali orbitavano sciami di gialle falene notturne. Allora finalmente si nutrì, scelse un africano ubriaco che giaceva su un sudicio materasso sfondato coperto di stracci. Il suo sapore però era disgustoso, sapeva di cibo in scatola e alcool scadente. Mentre gli squarciava la gola con un coltellaccio arrugginito da macellaio e affondava le labbra nella ferita per suggere il liquido nero, in rantoli bestiali, contrariato e deluso pensava:
“Non sarebbe stato meglio cibarsi del sangue di quelle ragazze giovani e in fiore? Anche a costo di farsi scoprire e morire, compiere un ultimo pasto decente, piuttosto che nutrirmi di questa immondizia?”
Era tardi ormai, la sera lasciava spazio alla notte, una pallida luna piena si stagliava al di là del ponte della sopraelevata, scempio urbano che squarciava il cielo. Decise di tornare a piedi alla sua tana tagliando per i campi che separavano la piccola città dalla periferia residenziale. Il cammino fu lungo, i ragazzi non c’erano più al campo da basket, tutto era deserto, un’immensa solitudine circondava quella landa desolata di cemento silente.
Tornò alla baracca, sazio ma disilluso, col pesante fardello di un’angoscia incontenibile sul petto, il vampiro era infelice, triste, nel suo giaciglio sperduto nella brughiera, ma aveva un sogno, che forse era un suicidio: l’indomani la faina, si sarebbe lanciata nel pollaio, nutrendosi a sazietà in un sanguinario banchetto.

Davide Giannicolo



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