Dentro le pietre

“E’ inconcepibile per me” scrisse il mio amico investigatore psichico Lucius Leffing “che qualunque persona di razionale percezione e sensibilità, possa passare un lungo periodo della sua vita in una specifica abitazione senza lasciare qualcosa di se stesso impregnato, per così dire, dentro le pietre, legno o cemento del posto.”
Come vividamente mi ricordai di questa affermazione, qualche tempo dopo! Ma incominciamo dall’inizio.
Ero stato lontano da New Haven per molti anni e ritornai in uno stato abbastanza depresso fatto di ricordi e di rimpianti.
La mia salute non era buona. La febbre reumatica dell’infanzia aveva alla fine danneggiato il cuore. Inoltre, avevo un disturbo agli occhi. Il nervo ottico era inspiegabilmente infiammato; la luce forte mi faceva soffrire. Nell’oscurità e nella luce attenuata, comunque, io potevo vedere abbastanza bene, anche se in realtà io sentivo che la mia visione stava diventando anormale.
Dopo aver affittato una stanza in una delle poche aree residenziali rimaste (che non erano ancora state contaminate dal diffuso contagio dell’umana e sociale degenerazione) io incominciai a fare lunghe passeggiate lungo le vie della città. Di solito sceglievo le giornate nuvolose, quando il sole era nascosto; quando il cielo era coperto e la luce grigia, anzichè bianca, i miei occhi smettevano di farmi male e io potevo passeggiare in relativa tranquillità.
La città era molto cambiata. Talvolta riuscivo a malapena a capire dove mi trovavo. Interi isolati con piccole casette erano state spazzate via. Enormi strutture nuove, efficienti ma brutte, sorgevano da tutte le parti. Perplesso, io frequentemente mi rifugiavo nella non ancora distrutto territorio comunale, il Bosco come era chiamato qui. Comprendevo comunque che questo ultimo rifugio alberato era sotto assedio; vari interessi erano in moto per coprire il bosco col cemento, allo scopo di creare un immenso parcheggio a pagamento.
Un pomeriggio di tardo ottobre quando il cielo minacciava la pioggia uscii per una passeggiata. La mancanza del sole riposava i miei occhi; l’aria fredda in qualche modo mi calmava. Per circa un’ora camminai senza meta. Per un improvviso capriccio decisi di visitare una parte della città che avevo finora trascurato. Ero vissuto in questo quartiere quando ero bambino, oltre 40 anni fa. Anche se avevo solo 3 anni quando la mia famiglia si trasferì, avevo ricordi vividi di quella casa ed i suoi dintorni.

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La casa era a due piani, rossa di mattoni, costruita solidamente, localizzata al numero 1248 di State Street. Quando vivevo là, un grande olmo stava di fronte alla casa. Sul retro c’era un grande terreno incolto che si stendeva fino alla via adiacente, ed era un campo da gioco ideale.
In seguito l’olmo era stato abbattuto, il terreno quasi interamente riempito di case popolari e l’intero quartiere era avviato verso il declino.
Mentre mi avvicinavo al vecchio quartiere, ero spaventato da ciò che vedevo. Alcune case erano state abbattute; altre erano vuote, mostrando vetri rotti, porte fracassate e verande crollate. In un isolato ogni casa era vuota e parzialmente in rovina. Ero stupefatto e sconcertato. Non avevo visto una desolazione simile dai tempi della guerra.
Sotto questo grigio cielo di ottobre, con la nebbiolina che stava per arrivare, vedevo uno dei più squallidi scenari che si potessero immaginare. Provavo un’intensa oppressione spirituale, e mentre seguitavo a camminare lungo quelle vie stranamente deserte, il mio scoraggiamento aumentava.
Finalmente incontrai un passante già intabarrato in un giaccone invernale. Mi guardò sospettosamente quando gli chiesi perché c’erano così tante case fracassate e vuote.
“Percorso superstrada 91”
Egli mormorò affrettando il passo.
Anche se avevo appreso che c’era una razionale spiegazione per questa devastazione, non mi sentivo affatto meglio. Ero fermamente convinto che una leggera alterazione sul percorso avrebbe portato la nuova strada attraverso terreni piatti e paludosi, spostati solo di poche miglia. Il costo di questa deviazione sarebbe stato solo una frazione di quello sostenuto per la demolizione degli edifici.
Mi aspettavo che la casa della mia prima giovinezza fosse già stata abbattuta. Provai una sottile esultanza nello scoprire che essa stava ancora là. Ho detto sottile perché naturalmente sapevo che era condannata a sparire. Già le finestre erano rotte, la porta scardinata e parte della siepe antistante era stata abbattuta dal passaggio di camion e ruspe.
Mentre la guardavo ricordavo chiaramente episodi di oltre 40 anni prima e riflettevo sulla precarietà in cui vivono gli abitanti delle piccole città. Per scelta, o più probabilmente per necessità, questi cittadini si spostano da una casa all’altra. Non hanno stabilità, non hanno continuità. Quando qualcuno visita il suo vecchio quartiere può scoprire che quella sua precedente abitazione è scomparsa. Il luogo può essere stato occupato da un progetto di urbanizzazione per ville a schiera, o da un blocco di garage oppure da un posteggio a pagamento.
La casa, gli alberi, il cortile, perfino il marciapiede e la strada possono essere cancellati. Chi ritorna in quei posti prova una sensazione di sconfitta, un senso di sbigottimento, di caos. Un uomo incomincia a sentire che sta perdendo la propria identità, che, veramente egli non ha più un’identità. Egli si sente sperduto nel tempo, senza passato nè futuro. Non c’è più nulla dove egli possa ritornare, niente di permanente che egli possa continuare nell’incerto futuro. Isolato, intristito, alla deriva, questo individuo sperimenterà una solitudine dello spirito che nulla può calmare. Migliaia di abitanti delle moderne città si sentono sradicati, affannati in cerca di un focolare, di una abitazione che condivida il sapore del tempo; di un punto caldo e continuativo sulla terra che li unisca con il proprio passato e con un futuro nel quale è ancora possibile la speranza.
Con questi pensieri deprimenti nella testa io stavo davanti alla perduta casa di mattoni rossi della mia infanzia. Provai l’impulso di entrare, ma supposi che non era sicuro, e molto probabilmente era proibito.
Scendeva l’oscurità. La nebbiolina si ispessiva e io ancora indugiavo in quel posto.
Mi allontanai da quella casa da demolire nella quale avevo abitato e vagai per strade desolate, sbirciando attraverso finestre rotte, porte scardinate che non sarebbero più state aperte da una mano amica.
In alcune finestre, tendine marcite e annerite, che nella confusione dell’affrettato trasloco erano rimaste lì, fluttuavano nel freddo vento di Ottobre. Strani pezzi di mobili, piatti e altri ornamenti stavano sparsi sul pavimento. Intere vite erano trascorse in alcune di quelle case. Ora queste case erano rifugi vuoti, in attesa della totale e finale distruzione.
L’intera area sembrava deserta, silenziosa, prosciugata da ogni forma di vita. Perfino il solito rumore della città arrivava lì stranamente attutito e lontano.
Vagai senza speranza oppresso dalla desolazione che mi circondava, però accanitamente desideroso di rimanere lì.
La nebbia si ispessì, l’oscurità si fece totale e io rimasi.
Malgrado l’oscurità potevo vedere abbastanza bene.
Questa anormale abilità la attribuii alla mia allergia alla luce forte. Sentivo che questa condizione era dovuta alla mia infiammazione del nervo ottico, della quale ho già menzionato.
Attraversai un viale, stranamente luccicante con pezzi di vetri rotti delle finestre, e mi fermai per osservare una casa, grottescamente inclinata, col tetto crollato. Era una piccola casa bianca, costruita con economia e nonostante ciò vidi che il proprietario, una volta, la aveva accudita teneramente. Il colore era luminoso; la piccola cassetta per le lettere era lucidata; e un vecchio giardino calpestato circondava il luogo. Così assorto nei miei pensieri guardavo questa casa desolata attraverso la nebbia sempre più fitta; vidi una faccia alla finestra del pianterreno. Era il viso di un vecchio, bianco, sofferente, pieno di una inesprimibile desolazione.
Lo guardai stupefatto. Il mio primo pensiero era che fosse un vagabondo che era penetrato nella casa abbandonata con lo scopo di trascorrere la notte. L’umidità, probabilmente gli accentuava i reumatismi.
La faccia continuava a guardarmi; andai via, sentendomi a disagio. Rabbrividii, incolpando la nebbia fredda.
Avevo attraversato un gruppo di case quando vidi una donna. Enormemente grassa, stava seduta su una sedia di vimini nella veranda semidistrutta di una casa a due paini. Portava occhiali con lenti spesse che parevano riflettere la luce proveniente da sorgenti nascoste. Non c’era la luna, sicuramente, e non vedevo luci artificiali nei paraggi.
Ero sorpreso, ma supposi che alcune persone abitassero illegalmente le vecchie case di quel quartiere, in attesa di trasferirsi nelle nuove residenze in costruzione. Provai l’impulso di affrettare il passo, di tirare dritto senza guardarmi intorno. Invece, testardamente e contro il mio buon senso, non lo feci.
Anzi, feci una sosta, mi schiarii la voce e dissi: “Buonasera”.
La donna grassa non mi rispose; non diede segno di avermi sentito. Probabilmente, pensai, oltre ad avere la vista corta era anche un poco sorda.
Avanzai qualche passo nel vialetto e ripetei ad alta voce: “Buonasera”.
Allora sbattei le palpebre sbalordito. La sedia di vimini era vuota! Mi fermai di colpo e la guardai. Prima, per un istante, avevo abbassato gli occhi sul marciapiede per essere sicuro di non inciampare sui detriti; in quei pochi secondi probabilmente la donna si era alzata ed era rientrata in casa.
Ero meravigliato. La donna era grassa, però si era spostata con stupefacente abilità. Mi voltai, e tornai sul marciapiede allontanandomi.
Supposi che la donna era consapevole di essere lì abusivamente ed era rientrata per evitare discussioni con uno straniero.
Mentre mi allontanavo mi voltai indietro. Rividi ancora lo scintillio dei suoi occhiali; la donna grassa stava ancora sulla sedia di vimini. Qualcosa, più che la nebbia turbinante mi fece rabbrividire. Raggelato, affrettai il passato. Era tardi, mi dissi, sarebbe stato meglio lasciare queste sconnesse strade nebbiose e tornare a casa per una buona tazza di tè.
Camminavo rapidamente, ma non potevo fare a meno di guardare le case in rovina, mentre ci passavo davanti.
Improvvisamente mi fermai. Il cuore batteva forte. Una fredda ondata di paura mi formicolava sulla pelle. Con occhi e bocca spalancata guardavo attraverso quel tenue muro di nebbia e sentivo che il raziocinio e la sanità mentale mi stavano abbandonando.
Quasi metà di quelle case diroccate e abbandonate erano occupate. Vidi pallide facce tristi sbirciare da una dozzina di differenti finestre. Oscure, nebbiose figure sedevano dentro alcuni porticati. Un vecchio, contorto dai dolori reumatici, lavorava debolmente in un minuscolo giardino. Una donna di mezza età, pallida come la morte, ma con una espressione di rabbia sconsolata stampata sulla faccia, guardava vicino ad un cancello rotto.
Peggiore di queste erano altre visioni. Vidi una sedia a dondolo muoversi dentro ad un portico, anche se non c’era nessuno seduto. Vidi una mano simile ad un artiglio aggrappata ai mattoni di un edificio. Nell’orto di una casa mezza distrutta vidi ciò che sembrava essere una testa di donna, senza corpo, con un grande cappello di paglia, che andava lentamente nell’intrico di una trascurata aiuola di fiori.
Sentivo la morsa della vicina pazzia. Non provavo più nessun desiderio di restare a guardare. La fuga immediata e imperativa diventò il mio unico scopo.
Corsi forsennatamente attraverso quelle vie abbandonate e pieno di paura come se fossi inseguito da un cane. Corsi finché il mio cuore tonfava e la vertigine mi sopraffaceva.
Finalmente lontano da quel posto maledetto con bianche facce mostruose, nebbia appiccicosa e uno strano grande silenzio, io crollai sulla soglia di una casa.
Alcune ore dopo raggiunsi l’albergo e sprofondai nel letto. Per giorni rimasi a letto ammalato. Il mio cuore era affaticato dallo sforzo e inoltre manifestavo i segni di una pleurite. Mentre stavo a letto, meditai sulla mia spettrale esperienza nelle vie, fra quelle case silenziose.
Mi convinsi che i miei occhi infiammati e ultrasensibili mi avevano ingannato, che la nebbia vagante più la mia immaginazione, erano la causa di tutto.
Ma, settimane dopo, quando raccontai la mia avventura all’amico investigatore psichico Lucius Leffing, lui scosse la testa dopo la mia spiegazione.
“Sono fermamente convinto,” mi disse “che nè i tuoi occhi infiammati nè la tua immaginazione, evocarono i fantasmi che hai descritto. Come ti scrissi recentemente è inconcepibile che una persona di razionale percezione e sensibilità possa passare un lungo periodo della vita in una abitazione, senza lasciare qualcosa impregnata, per così dire, dentro le pietre, nel legno o nel cemento di quel luogo. Quello che hai visto erano i residui psichici delle povere anime scomparse che, da generazioni, hanno trascorso centinaia di anni in quelle case da demolire. I loro resti psichici erano ancora attaccati alle uniche ancore terrestri rimaste, e già, come tu hai raccontato, alcuni di loro erano consumati o sbiaditi fino a semplici staccati frammenti.”
Lucius scosse la testa: “Povere anime!”

Traduzione di Sergio Bissoli

Joseph Payne Brennan



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