Una calda luce estiva

I colori erano svaniti.
Restava solo il bianco.
Il sole era talmente vicino, la luce così intensa, che tutto sfumava dal bianco all’azzurrino.
Si sarebbe dovuto aspettare almeno la seconda metà di agosto per tornare a vedere un cielo blu.
Ora, alle 11:40 dell’ 11 luglio, tutto era immerso nel silenzio, senza colore e senza tempo, tipico del culmine dell’estate.
L’uomo lavorava la terra, la sua terra, dalle 6 di quel mattino.
Era stanco, ma aveva quasi finito.
Tra poco avrebbe potuto avviarsi a casa e pranzare con sua moglie.
I ragazzi sarebbero tornati a trovarli al ritorno dalle vacanze.
Niente vacanze per l’uomo.
C’era un lavoro importante da fare.
Avanzava sulla sua rotoimballatrice lasciando dietro di sé delle perfette balle di fieno a punteggiare il campo.
Ma ormai aveva quasi fatto.
Il sudore, nonostante il fresco cappello di paglia e la bandana di cotone, gli grondava dalla testa e gli finiva negli occhi, facendoglieli bruciare.
Tra il sudore e quella luce bianca accecante era davvero difficile lavorare.
Per fortuna conosceva a memoria ogni metro del suo campo.
L’ultima balla rotolò dalla macchina e l’uomo spense il motore.
Si deterse il sudore dalla fronte passando l’avambraccio coperto dalla camicia e si voltò ad ammirare il lavoro finito.
Il campo era vasto e le balle di fieno avrebbero dovuto trovarsi a intervalli regolari su tutta la sua superficie.

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Eppure l’uomo ebbe l’impressione che fossero troppo vicine.
Scese dalla rotoimballatrice e diede un’occhiata circolare.
No, non c’erano balle ai margini estremi del campo.
Ruotò su se stesso per guardare meglio, ma il movimento gli causò un capogiro.
Dovette accosciarsi e appoggiarsi alla macchina.
Puntini neri e stelle luminose danzavano dietro le sue palpebre chiuse.
Riuscì a riaversi abbastanza da rialzarsi, con cautela, e afferrare la borraccia d’acqua che teneva di fianco al posto di guida.
Una lunga sorsata.
E un piccolo scroscio di acqua direttamente sul viso.
Rimase così per un po’, con il viso rivolto al cielo e gli occhi chiusi, immobile.
Senza la vista, gli altri sensi si acuirono.
E ora l’uomo poté dare un senso allo strisciante senso di fastidio che provava.
C’era silenzio.
Troppo.
Dov’erano le cicale, e grilli, e i corvi e tutte le altre creature che gli avevano sempre fatto compagnia durante il duro lavoro?
Non c’erano, non c’era nessuno.
Era solo in un campo reso bianco dalla luce accecante, sotto un cielo senza una nuvola e senza colore e privato della compagnia e del conforto di qualsivoglia creatura vivente.
Stava mantenendo la stessa posizione da troppo tempo e iniziava a sentirsi i muscoli intorpiditi.
Lentamente riportò la testa alla sua naturale altezza e si costrinse ad aprire gli occhi.
Tutto era coperto da una patina verde lime.
Ci mise un po’ a riacquistare la capacità di vedere.
Aveva ripreso a sudare, ma stavolta le gocce che gli scorrevano sul viso e sul corpo erano gelide.
Sapeva dentro di sé cosa avrebbe visto.
Le balle di fieno ora formavano un cerchio quasi perfetto attorno all’uomo.
Un muro che forse si sarebbe potuto sfondare con la rotoimballatrice.
Ma in cuor suo l’uomo sapeva che sarebbe stato inutile tentare di fuggire.

Monia Guredda



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