
Brutta roba il vomito.
Non parliamo neanche delle ossa disarticolate e delle piaghe.
Ma diciamoci la verità: è quando attaccano a parlare in lingue strane che il sospetto che stia accadendo qualcosa di molto brutto e molto antico inizia a farsi certezza.
Soprattutto se, fino a un momento prima, quella persona riusciva a malapena a distinguere un congiuntivo da un condizionale nella sua lingua madre.
Soprattutto se sono passati duemila anni dall’ultima volta in cui qualcuno ha parlato in quella particolare lingua.
Soprattutto se quella persona, mentre lo parla, sta camminando a testa in giù sul soffitto come un ragno.
Ormai l’avrete capito. Sto parlando di uno degli argomenti più controversi e discussi della tradizione religiosa occidentale: le possessioni demoniache.
Dalla Gerasa evangelica alle superstizioni medievali, dai rituali liturgici agli orrori del cinema contemporaneo, le storie di possessione hanno attraversato i secoli resistendo al tempo e ai tentativi di ridimensionamento critico della scienza, imponendosi come uno dei temi più persistenti della nostra cultura.
In questo articolo, vorrei tuttavia concentrarmi su un elemento in particolare di questo fenomeno, un elemento considerato tra i principali rivelatori della possessione, ossia l’uso di lingue antiche da parte dei posseduti e di ciò che questo dettaglio rivela sulla natura stessa di ciò che definiamo come demoniaco.
C’è qualcosa, in quelle lingue che non appartengono più a nessuno, che incute un terrore diverso. Non è il ribrezzo del corpo, ma la sensazione che ciò che stai ascoltando non dovrebbe esistere, che stia riemergendo da un’epoca che il mondo ha archiviato sotto le sabbie di qualche deserto del Medioriente, dove sarebbe dovuta restare.
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L’idea che il demonio parli in lingue antiche è un cliché, non c’è dubbio. Tuttavia, esso rivela l’intuizione che il male non appartenga al tempo degli uomini. Il male non nasce con noi, è estraneo al flusso della storia e certe parole sono come un promemoria di questa estraneità.
L’uomo tende ad appropriarsi di ciò che vuole conoscere, trova rassicurazione nel possesso, nel controllo, nella possibilità di dare un nome alle cose. Nella Genesi [2:19-20], Dio affida ad Adamo proprio il compito di nominare il creato. La lingua è, da allora, lo strumento con cui cerchiamo di governare quello che ci circonda. E per questo il sottrarsi del male a quella presa — il suo parlare idiomi che non ci appartengono più e smentiscono il nostro potere di definizione — ci disorienta e ci spaventa.
Nella tradizione cristiana, l’aramaico è la lingua di Gesù, ma anche di un mondo più antico, popolato da divinità dimenticate e spiriti precedenti all’ordine morale introdotto dalla religione cristiana. Quando un demone parla in aramaico, non lo fa come farebbe uno studioso, per ostentare la propria erudizione, lo fa perché appartiene a quel tempo remoto e non ha mai smesso di abitarlo. È una creatura che non si evolve, un essere prigioniero del proprio passato, che usa semplicemente l’unica lingua che conosce e che diventa, per effetto stesso del suo uso, una firma ontologica, testimonianza della sua natura e delle sue origini.
Questo contrasto tra l’essere fuori dal tempo e il doverci stare dentro definisce tutta la tragedia della creatura sovrannaturale. Stephanie Meyer, nella saga di Twilight, racconta che Carlisle Cullen riconobbe un vero vampiro nella Londra del Seicento perché lo sentì parlare in latino. Quel dettaglio, apparentemente ornamentale, è in realtà rivelatore: il latino, lingua dei morti e degli avi, segnala immediatamente che quell’essere non è figlio del proprio secolo.
È un sopravvissuto alla storia, un frammento vivente di un’epoca estinta.
Da un punto di vista culturale, la scelta di far parlare il demone in lingue antiche trova conferma in diversi studi. Andrew S. Jacobs, storico del cristianesimo, osserva come nei testi agiografici tardo-antichi i santi e i demoni comunichino spesso in lingue straniere o arcaiche, a indicare il loro statuto sospeso tra umano e divino. Ken Frieden, in uno studio risalente al 1990, dal titolo “The Language of Demonic Possession: A Key-Word Analysis”, osserva che nei racconti antichi — e in particolare nella tradizione evangelica — le lingue aramaiche ed ebraiche compaiono nei momenti più drammatici della narrazione. Non è un caso che, come scrive lo stesso Frieden, “Aramaic phrases occur at critical moments in the gospels […]”
Questo uso è tutt’altro che meramente ornamentale.
Il retaggio linguistico semitico esercita, infatti, un ruolo fondamentale nella rappresentazione della possessione, conferendo all’episodio una profondità che precede la storia dei personaggi e affonda nella memoria religiosa dell’Oriente antico. Parlare in una lingua morta è il modo in cui il demone dice agli uomini:
“Io c’ero prima di te. Ci sono ora.
E ci sarò per sempre.”
(Oreste Patrone: 20 novembre 2025)
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