Regia: Alfred Hitchcock
Cast: Antony Perkins, Janet Leigh, Vera Miles, John Gavin, Martin Balsam, John
McIntire
Soggetto: Robert Bloch
Sceneggiatura: Joseph Stefano
Fotografia: John L. Russell
Montaggio: George Tomasini
Scenografia: George Milo
Costumi: Helen Colvig
Produzione: USA
Durata: 1:48
Anno: 1960
Phoenix, Arizona. Marion Crane, impiegata in un’agenzia immobiliare, riceve dal suo principale l’ordine di depositare una caparra di 40.000 dollari in banca. La donna decide invece di scappare col malloppo per raggiungere Sam, l’amante, a Fairvale; ma, intrapresa la fuga, scompare misteriosamente nel nulla. Preoccupati per la sua sparizione, Lila, sua sorella, Sam e Arbogast, un detective assunto dal principale di Marion per riavere indietro il suo danaro, cominciano a cercare la donna: è così che arrivano al Bates Motel, gestito da un ragazzo all’apparenza timido e affabile, Norman Bates, la cui madre, una vecchia invalida, vive nella sinistra casa sita dietro il motel. Marion è stata lì? E Norman Bates sa più di quanto dice di sapere? E sua madre? C’entra per caso con la scomparsa di Marion? Sono queste le domande che ronzano di continuo nella testa di chi sta cercando Marion, sperando di ritrovarla ancora viva; le risposte che otterranno sveleranno una realtà terrificante.
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Nonostante siano passati quasi sessant’anni dalla sua apparizione sugli schermi
cinematografici, Psycho, capolavoro indiscusso del cinema thriller,
riesce ancora oggi ad avere un impatto emotivo sconvolgente sullo spettatore. Le
motivazioni sono tante: la scelta del bianco e nero, fatta da Hitchcock per
motivi economici (soltanto per questo?), che avviluppa il dipanarsi della
vicenda in un alone lugubre e angosciante; il discorso sulla follia, sui meandri
più oscuri della psiche, che deve aver avuto, all’epoca dell’uscita del film, un
effetto a dir poco destabilizzante su un pubblico che non era certo abituato a
tematiche simili; la maestria con cui Hitchcock girò alcune sequenze - inutile
ricordare la celeberrima scena della doccia -, che, a distanza di tanti anni,
sono citate in diverse pellicole, non solo d’oltreoceano (Vestito per
uccidere di Brian De Palma, Pulp fiction di Quentin Tarantino) ma
anche italiane (Un gatto nel cervello di Lucio Fulci); per questo e tanti
altri motivi, insomma, Psycho si conferma un film senza tempo, che
impressiona oggi come ieri, e che terrorizzerà indubbiamente anche il pubblico
di domani.
Il film più famoso di Hitchcock si fregia di uno stile narrativo particolare,
che ha il chiaro obiettivo di stordire chi lo guarda. La prima parte, infatti,
non prelude assolutamente alla seconda, dove il mistero, l’orrore, la follia, si
scatenano; essa racconta invece di un delitto da poco, un furto, e delle
vicissitudini di chi l’ha commesso, seppure il susseguirsi dei primi avvenimenti
sia comunque attraversato da una lieve angoscia, nonché da una buona dose di
suspense. La bravura di Hitchcock sta nel “mentire” allo spettatore, ovvero nel
fargli credere che il nucleo del film consista proprio nella fuga della
protagonista dalla legge: nessuno immaginerebbe, fino a quando Marion giunge, in
una notte tempestosa, al Bates Motel, cosa sta per succedere.
Fondamentali, nella pellicola, sono “gli attimi prima dell’orrore”, che
Hitchcock preferiva, a suo dire, all’orrore stesso. I delitti a cui si assiste
durante il film sono infatti preceduti da una manciata di (interminabili...)
secondi, in cui lo spettatore è avvertito di ciò che sta per succedere alla
vittima con una maestria tale da far sì che affondi nel divano mentre guarda
quest’intramontabile giallo “d’atmosfera”. E’ un tipo di narrazione che farà
epoca, e che insegnerà a molti registi come si provocano angoscia, panico,
terrore: primo fra tutti, in Italia, il grande maestro del thriller Dario
Argento, che a Hitchcock si è ispirato tanto da dedicargli persino un film (Ti
piace Hitchcock?).
Due sono gli elementi salienti nello svolgersi della vicenda raccontata dalla
pellicola: il senso del mistero e, come già detto, la follia. Il primo è
strettamente legato alla figura della madre di Norman, quell’ombra che si cela
dietro una finestra della casa dei Bates - tetra, quasi spettrale, location
perfetta, che infonde, solo a guardarla, una cupa inquietudine -, e che
s’infittisce man mano che Lila e Sam indagano sulla scomparsa di Marion.
L’argomento della follia, invece, resta latente per quasi tutta la pellicola -
anche se, dal momento in cui Marion arriva al motel, non è difficile fiutare
qualcosa di sinistro, di insano, nascosto dietro l’angolo -, per esplodere poi
nella parte finale. Anche questo fa parte dell’abile tecnica narrativa di
Hitchcock, in cui tutto è dosato in modo tale da atterrire e stravolgere.
Tante altre cose si potrebbero dire su Psycho; ma nessuno, dato il valore
di quello che rimane un pilastro della storia del cinema, rischierebbe di
svelare qualcosa di troppo. Non resta altro, allora, che consigliarlo vivamente
a tutti gli amanti del cinema thriller - e non -, e, soprattutto, di augurare a
tutti una buona, terrorizzante visione.
P.S.: Bernard Herrmann non poteva scrivere meglio la musica del film, che sembra
parlare, attraverso quegli archi esasperati, il linguaggio del delirio.
Voto: 10
(Salvatore Napoli)
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