Titolo originale: Manhunter
Regia: Michael Mann
Cast:
William Petersen,
Kim Greist,
Brian Cox,
Dennis Farina,
Tom Noonan,
Joan Allen,
Stephen Lang,
David Seaman
Soggetto: Thomas Harris (romanzo)
Sceneggiatura: Michael Mann
Fotografia: Dante Spinotti
Montaggio: Dov Hoenig
Effetti speciali: Joe Digaetano
Musiche: The Reds, Michel Rubini
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Anno: 1986
Durata: 119 min
Will Graham (l’attore William Petersen) è un agente FBI momentaneamente a riposo per riprendersi dai postumi dello scontro con l’inafferrabile e demoniaco criminale dottor Lecter, finalmente imprigionato dalla Polizia. L’amico e superiore Jack Crawford (Dennis Farina) interrompe però la vacanza forzata chiedendo di aiutarlo a prendere un pericoloso maniaco soprannominato “Dente di fata”, che ha già massacrato due famiglie nelle notti di luna piena.
Il maniaco è Francis Dollaryde (Tom Noonan), insospettabile tecnico di una ditta di materiali audiovisivi, disturbato da profondi complessi psicologici e in adorazione di una figura astratta chiamata "Drago Rosso", alla quale dedica i suoi terribili misfatti.
Will – inizialmente titubante – sulla faccenda, riprende pian piano le forze e si mette sulle tracce del pericoloso assassino.
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Manhunter è un film statunitense del 1986 che apre quel ciclo in cui sarà più o meno centrale (ma comunque presente) la figura del dottor Hannibal Lecter (che curiosamente in Manhunter si chiama Lektor e non Lecter), interpretato da Brian Cox in Manhunter poi dall’iconico Anthony Hopkins ne “Il silenzio...”. Le pellicole in tutto saranno cinque: “Manhunter” del 1986, “Il silenzio degli innocenti” del 1991, “Hannibal” del 2001, “Red dragon” del 2002, e infine “Hannibal Lecter – le origini del male” del 2007. Premesso per completezza che “H.L. le origini del male” narra l’infanzia e la giovinezza del terribile Dottor Lecter, nonché le cause di tanta ferocia e violenza, e che “Red dragon” è il prequel dell’acclamatissimo “Il silenzio degli innocenti”, nonché remake di “Manhunter”, possiamo già dire che tra i cinque si staccano nettamente per rigore espositivo e qualità strutturale dell’opera “Manhunter” e “Il silenzio…”. E sarà proprio “Il silenzio…” di Jonathan Demme a far riscoprire Manhunter, inizialmente assai sottovalutato e difeso strenuamente soltanto da un pugno di intellettuali, che avevano già intravisto il genio (quasi compiuto) del regista Michael Mann. La grande e progressiva visibilità de “Il silenzio…”, dovuta allo stato di grazia di Jodie Foster e soprattutto all’esplosione mediatica di Hannibal/Anthony Hopkins, sarà un buon viatico per la graduale riscoperta di Manhunter, film che altrimenti sarebbe rimasto un corpo estraneo a metà degli anni ‘80, incompreso come la cosa giusta nel momento sbagliato.
Se è onestamente difficile scovare una fonte d’ispirazione per Michael Mann, talento purissimo capace d’inventare sequenze uniche e memorabili (come lo scontro devastante tra Will e “Dente di fata”), lo si può comunque accostare a chi ha cercato in passato di costruire prodotti originali e “incontaminati”, se così si può dire, e viene alla mente il William Friedkin conosciuto soprattutto per “L’esorcista” (1973), ma che qui si cita per per un’opera sconosciuta al grande pubblico, “Vivere e morire a Los Angeles” del 1985 (To Live and Die in L.A.), dove il superfluo e il ridondante è bandito, esempio mirabile di stile minimal e coerente, verosimile con classe, inconsueto e dunque stupefacente. Come Friedkin allora anche Mann è così, partendo da una storia senza punti deboli e forzature, dopo aver costruito i personaggi caratterizzati con grande rigore, soltanto allora può lasciarsi andare in sequenze mozzafiato figlie di notti insonni e visioni oniriche inconfessabili, ed è proprio lì, nei discorsi a vanvera di Vincent sulla tua parte solida (Collateral), negli spari pioggia di fuoco riparati dietro le auto della Polizia (The Heat), fino ai primi piani dell’ottimo William Petersen che medita la prossima mossa, è lì che spicca il talento cristallino di Michael Mann che, come fece Friedkin nei primi ‘70, ha riscritto le cordinate del genere action/polizesco degli anni ‘90. Curiosamente Petersen è protagonista sia in Vivere e morire a L.A. che in Manhunter, antidivo poco stereotipo, laconico e concentrato. Lo spettatore ha pochissime pause, appeso al filo di una narrazione pirotecnica ma sottile, intelligente, e sobbalza quando Will ha lo spunto geniale: ma certo, lui li conosce perché ha visto le loro case, i loro giardini…, ma come li ha visti se non c’è mai entrato? Ha visto le case attraverso i filmini... che ha sviluppato!! Ma certo, e li ha sviluppati lo stesso studio!
Francis Dollaryde (Tom Noonan) è stato scoperto allora, ora lo sa, non c’è tempo da perdere, bisogna prepararsi, l’F.B.I. sarà qui a momenti..., non c’è fretta però, non fa niente, Francis aspetta in silenzio, una brezza leggera s’alza e rinfresca, ci siamo quasi, Will sta arrivando perché è un agente scelto e quello è il suo lavoro, ha coraggio da vendere. C’è la fase dell’avvicinamento, dello studio, anche della paura e della titubanza… ma è proprio per sconfiggerla che bisogna gettarsi nella mischia, buttarsi. Ci sono dei tempi matematici sacrosanti da rispettare: prepararsi, e attaccare. Uno, e due.
Nel cinema di Michael Mann, com’era anche in quello del maestro Stanley Kubrick, il racconto si evolve con estrema attenzione ai particolari: Will è visibilmente intimorito durante il confronto col dottor Lecter, non bastano nemmeno potenti sbarre d’acciaio a rassicurarlo, la voce esce titubante e lo sguardo è insicuro. Del resto lo stesso Hannibal nel corso dell’incontro riesce a scoprire dove abita attualmente Will con la moglie e il figlioletto, nascosti in una località segreta in Florida. Il bene non si presenta con le fattezze del duro tutto muscoli e tatuaggi, le forze dell’ordine – persino gli agenti dell’F.B.I. - hanno paura come gli altri, e devono sapersi muovere. Ad ogni azione corrisponde una reazione, questa è la regola principale, e il giornalista scandalistico Freddy Lounds pagherà con la vita per un’intervista denigratoria su Francis Dollaryde. Il racconto si evolve, dunque, appoggiandosi ad una sceneggiatura perfetta (dello stesso Mann).
Voto: 8
Claudio Bacchi è nato il 04-12-1970 a Foligno (PG) ed ha sempre avuto una grande passione per la scrittura, coltivata come profondo interesse e non come occupazione principale. Laureato in Scienze Politiche, nel corso degli anni ha pubblicato numerose recensioni cinematografiche su vari siti web di settore e collaborato con la rivista "C'Era 2000" per brevi racconti. Nel 2000 pubblica il romanzo giovanilista "Pursauenghi poi bang", con la casa editrice Laurum, e in seguito fa stampare alcune centinaia di copie dell'altro romanzo "Salvala guitar", nel 2017. E' un grande appassionato di cinema, animalista e vegetariano.
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