Abyssus

Diario di bordo - 1 settembre 1938
Nave mercantile - Arca Celeste
Mari del nord
Cap. N.G. Pensalfini

Silenzio assordante dalla tolda di prora, infranto dal cigolante sfregamento di catene. Dalla coffa maestra non odo nulla. Non un grido acuto di colossali avvistamenti, solo desolati e malinconici abissi glaciali. Adesso, osservando la maestosità dell’oggetto sottocoperta, capisco di cogliere la compagnia di nient’altro che la sua profonda essenza. Essa mi sussurra nelle notti quanto mai più animose, narrando di mondi lontani e di profonda comprensione dell’esistenza stessa. Non so bene descrivere il manufatto conservato tra i fusti di ghiaccio e rimanenza di mercanzia, poiché, da quando ne ho memoria, non ho mai visto nulla di vagamente simile e inusitato. Osvaldo, nostro comandante in seconda, volle paragonarlo ad una grossa chiocciola di materiale simile al ferro, ma ben più scuro e bizzarramente lucente e striato. Questo qualche tempo dopo il ritrovamento oltre la landa desolata dell’isola priva di nome. Maori, medico di bordo e ricercatore Indiano, ne tracciò un profilo ben più dettagliato:

- Di difficile classificazione dal punto di vista dei componenti organici. L’oggetto in questione presenta una foggia affusolata color corvino, indeformabile e metallica. Al sorgere della luna essa assume tratti opalescenti con strati violacei e luminosi disposti su tutta la struttura difforme. Al centro, è possibile scorgere un polmone pompante dotato di appendici filamentose. L’aria emanata dall’organo è pesante, al percepirla la mente tende a confondersi di netto, come rendersi d’impatto conto di cosmica solitudine; sensazioni, esse, quanto mai inquietanti e portatrici di percezioni ultraterrene.

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Tra meste bevute in stambugi di porto e grossolane osterie, non posso, quale esperto Comandante in divisa, non rammentare di sinistre leggende danzanti tra i mari glaciali; tra gesta di pirati fantasma e avventurose scoperte di arcipelaghi misteriosi. Non a caso il navigar nostro avveniva con occhi vispi e menti acute. Akranes d’Islanda era una meta piuttosto lontana e ambita; non spreco il mio tempo tuttavia, né tanto meno il vostro, a dire che il porto Islandese divenne lontano e irraggiungibile ai più avventurosi di noi. Questo accadeva in piena navigazione, ben prima di incacliarci tra le secche della terraferma, quando la tempesta imperversò furibonda e tutti noi pregammo Dio, sottocoperta, che la collera del mare ci lasciasse uno spiraglio di luce. Non so dire se la fortuna ci assistette esplorando, per caso puro, un atollo deserto, contornato di null’altro che vertici di ghiaccio e attorniato da strati di nebbie spettrali, che nulla stavano a mostrarci se non l’irrazionale. L’euforia fu quella tipica di quando si ha qualcosa da raccontare, e quell’incespamento fortuito fu a tutti gli effetti degno di entrare nelle leggende popolari dei loschi bevitori e mozzi di porto. Ma adesso ad annotare quel racconto, è bene riferire di un qualcosa di ancor più imponente che solo al vederlo gli animi si destarono curiosi. Severino, garzone di prima, rinvenne il manufatto durante un via vai di avanscoperta tra le spiagge raggelate. Esso era posizionato all’interno d’una buca perimetrale mal composta, quasi fosse piombato lì dall’atmosfera stessa. Fu lo scintillare del suo centro che attirò la nostra attenzione, saltellante di gioia, secondo l’Indiano Maori l’enorme conchiglia si trattava di un organismo prezioso, lontano persino dalle più antiche scoperte di era preistorica. Per quanto strano apparisse, l’oggetto emetteva una sorta di brusio intermittente, soave ma a tratti spiacevole. Adesso direi quasi sembrasse astioso. Fui riluttante sul da farsi ma, lavorando d’ingegno e di animo lucro, pensai che la scoperta ci avrebbe concesso ingenti ricchezze. La ciurma impiegò due giorni per tirar fuori la carcassa interamente e quasi altrettanto per calarlo giù oltre il padiglione inferriato della nostra Arca Celeste. Essendo l’ultimo rimasto, e conservando l’animo d’un Capitano, dovrei a questo punto scrivere di pentirmi delle nostre condotte pericolose, le quali vendicarono su di noi l’ignoto in una notte di ordinario silenzio. Persicoli, maestro di macchina, bussò forte alla mia cabina. Aveva un'aria spaventata e il fiato corto, stroncato solo dall'imminente informarmi della sinistra scomparsa del guardiano di turno, giovane marchigiano appena ventunenne. Non a caso decidemmo di non svegliare il resto della ciurma sottocoperta, così da dirigerci al ponte di prua. L'aria era gelida, il cielo stellato. Del giovane nessuna traccia se non la vecchia lampada ad olio riversata sul legno increspato. Guardai oltre la balaustra e scorsi le acque nere come petrolio. Deve essere accidentalmente caduto! Ne sentii la piena certezza tanto che l'indomani annotai l'accaduto sul registro giornaliero. Non a caso la seconda persona a sparire senza lasciar tracce fu proprio Maori, da giorni impegnato nello studio di quello strano oggetto, gigante e affusolato. Le modalità furono misteriosamente identiche a quelle precedentemente accadute al giovane marchigiano: notte fonda, venti gelidi e indizi riguardanti la balaustra; dove il medico lasciò poggiato su di una scialuppa il suo taccuino le quali ultime righe, non nego, mi provocarono una serie di brividi e incupimenti generali su note d'inchiostro andare deteriorandosi: le voci. Di fatto, secondo quanto udito, l'uomo avrebbe percepito dei lamenti, simili a suoni parlanti come le dolce note d'un flauto ottavino, provenire dal sinistro rinvenimento che a suo dire, mostrava una serie di sfavilli violacei e opalescenti illuminando di uno spettacolo surreale l'inter spazio dedito alla mercanzia. A questo punto l'equipaggio cominciò ad impesierirsi e mostrare cenni di rabbia e strana euferia nei giorni a seguire. Goebtze, comandante in seconda, si dilettò nell'insaccare una discreta quantità di legumi secchi gettandoli in mare, sogghignando in espressioni prive di razionalità e gridando frasi incomprensibili, tant'è che sei uomini dovettero legarlo all'albero. La vicenda accadde di notte, quando noi tutti ci svegliammo a causa dei ripetuti fragori. Il terrore congiunto venne altresì di martedì sera, quando ogni razione di viveri scomparve nel nulla. Mi resi conto allora con estremo orrore che l'esecutore s’era, di netto, reciso la gola con l’arpione, in una pozza di sangue opaco dinanzi all'oggetto, sfavillante di viola e trasportatore di folli atmosfere insensate. Non sprecherò altro tempo nel narrare degli ultimi marinai scomparsi, impazziti o mutati in ombre di terrore lontano d'ogni ragione. Che mi basti d'esser sopravvisuto, navigando in rotte senza una meta precisa. Ad oggi, ogni tanto mi sembra di sentir cantare voci di defunti lontani, e non posso far altro che guardare quel misterioso manufatto da dove tutto è cominciato, sentendomi trasportare da qualcosa che lo spazio stesso non ha mai compreso. Se solo potessi descriverne le incredibili meraviglie, registrarne le note e catturarne gli sfavilli. Dio di tutti mari e della terra, quanta maestosità percepita. Mentre annoto ciò che avvenne e ciò che accadde è notte fonda, la fioca fiamma a petrolio mi è di conforto e l'aria tanto fredda da penetrarmi nelle ossa. Spiacente di non saper scrivere di specifiche destinazioni cui l’Arca Celeste farà tappe negli astri prossimi, tuttavia lascerò queste note sul polveroso scrivante inglese della mia cabina, nella consapevolezza, forse, che qualcuno un giorno le leggerà e, chissà, visionando le meraviglie della scatola cosmica e divina sottocoperta, a me destinata! Adesso spegnerò la fiammella perché la luminescenza violacea brilla di lontananza trapelando oltre i fulcri. Dio quant'è bello e maestoso osservarla. Dio, meraviglia morbosa sentirla sussurrare. E, mi rammarico, se solo tutti potessero incrociarne il divino splendore.

Non posso che concludere con una frase.
La più antica e potente emozione umana è la paura, e la paura più antica e potente è la paura dell'ignoto.

H.P Lovercraft.

Adesso vogliate scusarmi, cari lettori. Ma il mio momento, tanto atteso, è ora giunto. E no, non provo timore. Solo adorazione, navigando il mare infinito e taciturno, che tanto s’allontana e tanto mi è vicino.

Salvatore Porzio



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