Fermata a richiesta

Il paesaggio è grigio, slavato dalla nebbia che anche questa mattina imperversa, silenziosa e indifferente. Il sonno tiene semichiuse le mie palpebre, al buio ho raccolto i miei vestiti e in pochi minuti sono uscito a stringermi nella mia felpa grigia. I jeans, celeste chiaro, oppongono poca resistenza ai miei passi che in automatico si dirigono alla fermata del bus davanti all’edicola. Con le mani chiuse a pugno nelle tasche dei pantaloni cerco un po’ di calore nello zaino sulla schiena, il sole è nascosto dietro la cortina umida che mi circonda. Pochi suoni intorno, qualche macchina qua e là sfila sonnecchiando. Attraverso Via San Donato e attendo il mio bus, l’88c, sempre lo stesso, da tre anni con la sua svogliata indolenza mi accompagna a scuola a Bologna tutti i giorni.
Alzo gli occhi, sta arrivando in senso opposto, farà tappa al capolinea dietro l’edicola e poi si fermerà di nuovo qui per ricominciare la corsa.
Non è la solita vettura, sembra una di quelle corriere di una volta che attraversavano il confine con l’Europa dell’Est, l’arancione a cui ero abituato ha lasciato spazio anch’esso al grigio, il numero è nero su sfondo bianco, la luce che proviene da dentro è fioca. Rallenta per fare la curva e dopo due svolte si ferma per far scendere i passeggeri.
“Bella roba” esclamo, nessuno intorno a me, “perché usano ancora queste vecchie corriere?” Cerco la risposta sulla punta delle mie All-Stars nere.
In lontananza il motore del bus è ancora acceso, di solito l’autista lo spegne per fare una piccola sosta al Bar del Principe. Oggi è rimasto al suo posto, avrà fretta penso.
Un pensiero mi scuote, la mano destra vola verso la tasca posteriore dei jeans. Guardo in alto sconfitto “Cazzo il cellulare!”. Ricordo di averlo poggiato sulla poltrona e non averlo ripreso prima di uscire.
L’88c chiude le porte e riparte per arrivare alla mia fermata, non posso tornare a casa ora, il prossimo bus è tra quarantacinque minuti. -Che due maroni.
Sto ancora scuotendo la testa quando la vettura si ferma davanti a me ed apre le porte. Un odore di stantio misto polvere e muffa mi investe le narici.
-Che giornata di merda!
Salgo i tre scalini. Guardando il pavimento scuro e gommato dico “Buongiorno!”, lo faccio sempre, l’autista grugnisce qualcosa, sarà una giornataccia anche per lui o non sopporta di essere buongiornato.
Mi dirigo verso la prossima tappa, la macchinetta dei biglietti, l’obliteratrice. Tiro fuori il portafoglio e cerco l’abbonamento annuale, sto per appoggiarlo quando mi accorgo che non è un dispositivo recente, di certo non quelli che basta sfiorare per timbrare. È di quelli antichi che imprimono una scritta sulla carta.
-E adesso che ci metto?
Frugo tra le pieghe del portafoglio e intravedo una striscia di cartoncino. Non ricordavo neanche di averlo, è proprio un biglietto vecchio stile, sarà stato inglobato dalla miriade di scontrini e carte inutili chissà quanto tempo fa. Lo estraggo e non senza fatica lo spingo all’interno dell’apposita fessura.
Un rumore metallico marchia il mio unico biglietto per sempre. Lo giro tra le dita e con i polpastrelli percepisco l’incisione, l’inchiostro però deve essere finito non riesco a distinguere i numeri.
Speriamo che il controllore non faccia storie.
Senza far troppo caso agli altri passeggeri saliti al capolinea mi dirigo verso i miei posti preferiti, quelli in fondo. Li preferisco, sin dai tempi delle gite alle elementari, già allora era frequentato dalla teppa della scuola, casinari, cantanti e alcuni poco raccomandabili, i cocchi delle maestre e i secchioni invece erano sempre vicino all’autista.
Non trovo nessuno, sfilo lo zaino e mi posiziono al centro. Poggio il mio Invicta sulle gambe, le cuffie giacciono inutili nella tasca della zip davanti, maledico ancora di non aver portato con me il cellulare.
Potevo ascoltare un po’ di musica.
Affranto e senza neanche nulla da leggere, inizio a guardare meglio l’interno di questa vecchia corriera. Pavimento nero, soffitto grigio e sedili blu scuro molto deprimenti, il rivestimento è logoro nei punti di maggior uso.
Un campanello mi fa sussultare, non me lo aspettavo così forte, tra l’entrata e l’autista in alto quasi attaccata al soffitto una scritta si illumina debolmente di rosso. WAGEN HÄLT.
Questa andava in Germania evidentemente, ricordo qualcosa di un viaggio che ho fatto da piccolo con i miei, dovrebbe significare qualcosa come Fermata a richiesta.
L’88c si ferma bruscamente, mi aggrappo ai sedili davanti a me. Guardo i passeggeri e nessuno si lamenta. La porta si apre e alcune persone salgono e iniziano a riempire la vettura. Fuori dal finestrino la nebbia non accenna ad alzarsi, come una coperta avvolge la pianura che ci circonda.
Grigio dentro, grigio fuori. Sarà una sensazione ma anche i miei jeans stanno perdendo colore, forse è la luce al neon penso.
Unica cosa positiva un piacevole tepore mi sta avvolgendo. Sale dal basso, evidentemente il riscaldamento sta funzionando, chiudo gli occhi per godermelo meglio e per alcuni minuti seguo i movimenti della vettura sul percorso che conosco a memoria ormai, il lungo rettilineo di Via Roma, la rotatoria, i dossi di ingresso alla frazione di Cadriano. Qui dovrebbe salire un po’ di gente, ed è così. Apro gli occhi. Tutti i posti sono occupati tranne i quattro accanto a me, meglio così, mi hanno lasciato del sano spazio vitale, ultimamente non sopporto più nessuno.
Molte persone sono anziane, di solito i miei compagni di viaggio sono studenti o persone che vanno a lavoro, oggi solo pensionati. Le loro chiome canute risplendono nel silenzio generale. Solo ora ci faccio caso, escluso il rumore del motore, nessuno sta parlando, è strano.
Mi sposto in avanti per scorgere in viso i passeggeri più vicini a me. A destra un signore con una coppola e un cappotto di altri tempi che arriva fino ai piedi, il costumista di Schindler’s List sarebbe contento. A sinistra una signora sugli ottanta indossa un tailleur con una maglia a collo alto. Entrambi sono vestiti di grigio.
Sento distintamente il mio cuore aumentare i battiti. Qualcosa non va. Guardo di nuovo verso la parte anteriore della vettura e scorgo solo sfumature scure, nessun colore.
Ho la bocca asciutta, un brivido percorre la schiena e frena la sua corsa sulla parte destra del collo.
Guardo di nuovo i miei vestiti, la felpa è sbiadita così come i jeans e le scarpe.
Calma, calma! Mi sto facendo suggestionare ne sono sicuro.
L’ex corriera prosegue il suo viaggio nella zona industriale. Alla prossima fermata deve salire il mio amico Pier, così almeno faccio due chiacchiere e mi tolgo quest’ansia di dosso. Mi avvicino al finestrino di destra, nessuno aspetta il bus, la corriera continua la sua corsa senza interruzioni.
L’ultima fermata deve farla c’è sempre qualcuno. Scorgo una donna che sale ogni mattino. La ricordo bene perché è sempre vestita con dei colori sgargianti, indossa un vestito multicolore tipico del Senegal.
Sgrano gli occhi per seguire tutti i suoi movimenti. Fa il suo ingresso e per fortuna i colori e il sorriso illuminano lo spazio che la circonda. Mi riprendo un secondo, va tutto bene allora. Riesco addirittura a sentirla cantare, ha una voce squillante e coinvolgente. Sorrido, finalmente.
Fa due passi verso l’interno e il sangue si gela nelle mie vene.
Il rosso vivace e il verde del suo vestito si sono spenti, il giallo è solo un ricordo. Grigio chiaro, grigio scuro e non canta più. Un velo di tristezza la avvolge. Gli occhi prima allegri e sinceri ora sono cupi e senza calore. Guardo meglio, la pupilla e l’iride non esistono più, al loro posto l’intera sclera bianca.
-Cazzo!
Sta venendo dalla mia parte. Mi alzo in piedi e lo zaino scivola a terra. Tutti si girano verso di me, ognuno mi fissa con lo sguardo spento senza pupilla né colore.
La signora in tailleur inclina la testa e mi sorride nel modo peggiore che io abbia mai visto. Due file alternate di denti marci attaccati direttamente all’osso fanno la loro comparsa. Mi parla, o almeno è quello che credo stia facendo non capisco nulla.
Lo ripete. Non è un suono, è un gorgoglio e sale direttamente da dentro la sua carcassa, alza un braccio o quel che ne rimane, brandelli di carne danzano appesi a lembi di stoffa. Le sue dita scure si aggrappano ai sedili come per alzarsi. Si sforza di parlare meglio. Questa volta capisco.
-Scendeh alla prossimaaaaaah?

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Tutti mi stanno osservando, alcuni dalle loro orbite vuote, la signora che era appena salita attonita mi guarda aspettando un mio gesto.
Devo andare via da qui.
Mi abbasso per raccogliere lo zaino e una zaffata di putrido sorprende le mie narici. A stento riesco a trattenere un conato di vomito. Guardo sotto i sedili e vedo penzolare e cadere con un tonfo un pezzo di gamba.
Con le mani afferro il mio Invicta e mi accorgo di non avere più sensibilità nei piedi, come se non circolasse più il sangue. Faccio un passo e cado in avanti, riesco ad aggrapparmi ad uno dei sedili. La mano scarnificata del signore che stava alla mia destra si appoggia sulla mia. Il suo volto è a pochi centimetri dal mio, il fetore è pestilenziale.
Devo raggiungere l’uscita è l’unica salvezza.
Su di un sostegno laterale vedo il pulsante della richiesta di fermata. Lo premo.
La luce rossa si accende.
Guardo fuori, mi trovo in uno dei posti più isolati tra le campagne, devo essere poco prima di Via San Donato vicino al Pilastro. La nebbia nasconde anche il più piccolo barlume di civiltà.
A un metro da me, sulla destra l’uscita. Le creature che affollano l’88c si sono alzate tutte quante e stanno venendo verso di me.
Spero che le porte si aprano. Spero che mi lascino uscire. Spero.
Punto i piedi e li uso come fossi sui trampoli, devo andare avanti ma non ho stabilità. A fatica guadagno una trentina di centimetri. Mi aggrappo al prossimo sedile e trascino le gambe in avanti.
La vettura si ferma e un urlo innaturale si leva dalla parte anteriore. Finalmente vedo l’autista, un corpo scheletrico, molto piccolo, ai suoi piedi sono legate delle ossa lunghe, quel che basta per farlo arrivare ai pedali del freno e acceleratore. Si avvicina anche lui brandendo un femore di chissà quale malcapitato.
Mi lancio verso l’uscita e vado a sbattere verso la porta, mi ritrovo in ginocchio, decine di urla strazianti alle mie spalle.
Devo trovare il modo di uscire, la porta ha l’apertura a soffietto. Inserisco le mani all’interno della guarnizione centrale. Inizio a fare forza per aprire. Sento che sta cedendo, si apre ma non è abbastanza.
Inserisco parte delle braccia e faccio leva sui gomiti.
Sento l’odore dell’aria, fresca e umida, respiro per recuperare le forze. Provo di nuovo ad aprire, questa volta la porta cede di schianto, non me lo aspettavo e precipito verso l’esterno.
L’asfalto mi accoglie in malo modo, sbatto la fronte e rotolo sulla schiena. La corriera è ancora lì, il motore è acceso, non esce nessuno. La chiusura pneumatica si attiva e con un sibilo la porta si chiude. Dallo scarico superiore esce una nuvola di fumo denso e nero, l’88c prosegue la sua corsa verso l’inferno.
La nebbia mi ricopre e sopraffatto dal dolore, svengo.
-È tutto professoressa Milani, questo è il motivo per cui sono arrivato in ritardo alla lezione.
Rimasta in silenzio fino ad ora, si avvicina e guardandomi dritto negli occhi -Marinelli lei veramente pensa che io possa credere a questa storia?
Con il dito indico il livido sulla fronte e le abrasioni su gambe e braccia.
Negli occhi uno sguardo di compassione -Vada in infermeria, si faccia medicare.
Dentro di me sorrido ma solo per poco.
-Poi torni qui che la interrogo, questa storiella può piacere alla Cantelli di Italiano, io insegno Matematica caro Marinelli.
Con un ghigno incrocia le braccia sul petto.
Il mio compagno di banco sussurra -Te l’avevo detto che non ci avrebbe creduto!

L'immagine di copertina è stata realizzata da Aggeliki Stavrianou

Alessandro Marinelli

Nato a Roma nel ‘75, bolognese di adozione, lavora in qualità di informatico. Nerd convinto, amante degli anni ‘80 e dell’analogico, ha una passione per i giochi di ruolo e la fotografia.
E' sempre stato affascinato dalla scrittura fino a quando non ha deciso di cimentarsi personalmente in tale arte. Queste le sue pubblicazioni:
Il Romanzo "Da come cammini" pubblicato il 14/09/2023 edito da Another Coffee Stories.
La raccolta di poesie "Realtà è poesia" di Enza Mineo contiene le sue foto a fronte, pubblicato in data 24/08/2023 edito da Writers Editors (Viversi Edizione).
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