Raymond Carver di Marte

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2022 - edizione 21

La strada che da Port Angeles conduce ai ruderi della Sky House attraversa un altopiano abitato da isolate comunità, in guerra tra loro per l’acqua residua e in attesa di un fato che, da un momento all’altro, poteva assumere i tratti della catastrofe.

«Maledetto Burroughs, ti sbagliavi: solo gelo, fine polvere rossa e nessuna principessa ad attendermi!»

Ma andiamo con ordine. Questa storia ha avuto inizio nel dicembre del 1957, giorno in cui, nello stesso ospedale dove mio padre era “ospite” del reparto di psichiatria, è nata la piccola Rae; all’epoca lavoravo come tagliaboschi, seguivo il corso serale di letteratura all’UCLA e, anche quando ero sobrio, vivevo sospeso a metà tra una vita e l'altra.

Oggi so che esiste una verità mitica in ogni sensazione e che non c’è follia persino nelle narrazioni più inverosimili: tutto si riconduce invece a strani attrattori, a traiettorie planetarie che arrivano ad essere sufficientemente vicine ma che, essendo perturbate, generano infinitesime variazioni delle condizioni al contorno e infinite variazioni in uscita.

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Portali, insomma, come quello in cui sono imbattuto quel dannato giorno, cadendo - la mente annebbiata dal gin - in una tomba aperta del vecchio cimitero. Cercando la chiave per fuggire dalla mia vita attraverso una porta dei sogni.

Già, proprio così: un destino imprevedibile, quanto il filo di fumo dell’ultima sigaretta che mi è rimasta, quanto i diafani fantasmi degli antichi abitanti immaginati da Bradbury che ora infestano il terreno caotico dinanzi a me.

Certo, di fronte ad un simile presagio non dovrei nutrire timori, dopotutto sono già trapassato una volta, eppure provo la stessa inquietudine di un tempo, per ciò che mi sta aspettando e che Lovecraft avrebbe amato definire innominabile.

Lo so, questa volta morirò davvero qui, su Marte, il secondo sol del mese di Simha.

Giancarlo Manfredi



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