Confessione

“Papà ho una cosa molto importante da dirti”. La voce mi uscì flebile.
Mi avvicinai alla finestra e spostai una lunga tenda blu che impediva ad uno splendido sole di fine maggio di illuminare a dovere la stanza.
La prima cosa che notai affacciandomi alla vetrata fu un incantevole prato inglese e un gruppo di persone di mezza età che passeggiavano flemmaticamente poco lontane.
La richiusi di scatto.
Avevo bisogno di tranquillità e la vista di altri soggetti mi impediva di esser sereno.
Mi accorsi di avere le mani estremamente sudate a causa del nervosismo, cosi le strofinai energicamente addosso ai miei orrendi pantaloni a scacchi, e prendendo coraggio ricominciai a parlare.
“Carini questi calzoni papà, me li avevi regalati per il mio trentaduesimo compleanno”.
Non son mai stato bravo a mentire, lo si vede lontano un miglio quando lo faccio, le guance mi diventano rosse e il respiro affannoso.
In quel momento, ovviamente, fui assalito da tutti quei sintomi.
“Ho passato la notte insonne perché ci tenevo a dirti queste parole, non voglio più essere logorato dal rimorso”.
Poche volte mi era capitato di essere privo di sonno, io amo dormire, lo ritengo uno dei principali piaceri della vita. Eppure erano tre giorni che non chiudevo occhio, il senso di colpa mi stava consumando prepotentemente e l’unica soluzione a quella situazione devastante era la confessione.
Mi avvicinai a mio padre e gli accarezzai il volto con dolcezza, a quel punto esplosi in un pianto liberatorio e sottovoce esclamai: “è tutta colpa mia, non sei inciampato, sono stato io a spingerti”.
Il cuore mi batteva all’impazzata e la palpebra destra cominciò a tremarmi freneticamente a causa della tensione accumulata.
Sperai che con quelle parole, dopo essermi tolto quel peso, pian piano potesse tornare un senso di normalità nella mia vita.
Durante la mia esistenza ebbi qualche conflitto con lui, a causa dell’essere troppo simili, due caratteri forti sotto lo stesso tetto spesso portano a tensioni continue.
Fu così che a diciannove anni me ne andai di casa.
Solo, senza soldi e privo di una spinta morale da parte della mia famiglia. Ci sentivamo raramente, la media era di tre o quattro telefonate all’anno, solitamente a Natale e ai vari compleanni. Tutto questo durò all’incirca dieci anni, poi qualcosa cambiò. Lui mi disse che venne assalito dal senso di colpa e decise di riavvicinarsi per rimediare a degli errori passati. Secondo il suo parere il nostro rapporto si era interrotto a causa della sua rigidità e del suo bisogno di sovrastare gli altri. Secondo me invece la soluzione di tutto ciò fu mia madre.

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Sono sicuro che lei avrà passato quel decennio della sua vita studiando un piano per farci ricongiungere ad ogni costo. E ce la fece.
Una fredda sera di febbraio vennero per la prima volta a farmi visita e sconvolti dal tugurio nel quale vivevo mi convinsero a tornare.
Abitai con loro per circa due anni, poi grazie ad un nuovo lavoro ben retribuito, decisi di chiedere un mutuo e di acquistare un’abitazione tutta mia.
Lavorare nelle pompe funebri non era una passeggiata. Spesso, anzi molto spesso, assistevo a scene forti, ma il guadagno sostanzioso mi faceva digerire il tutto.
Ormai sembrava andare tutto a gonfie vele, e per evitare di finire ancora in sgradevoli distacchi, decidemmo di organizzare delle periodiche uscite in famiglia.
Un’afosa domenica di Maggio optammo per un’escursione in montagna. Li avremmo trovato un po’ di refrigerio e un paesaggio decisamente migliore delle orrende cittadine nel quale vivevamo.
Mia madre non si unì a noi, causa un mal di ginocchio che durava da parecchi giorni.
Meglio per lei, diciamo che è andata bene così.
Papà cadde.
Ricordo il terreno scivoloso, la rupe, le mie mani appoggiate sulla sua schiena.
Poi il buio.
“Permesso”. Una voce rauca richiamò la mia attenzione.
Mi girai di scatto verso l’entrata della stanza.
Due uomini robusti e dall’aria distinta si avvicinarono a me.
“Ora purtroppo sarebbe meglio che ti allontani”.
“Sai bene che preferiamo operare lontano dai familiari, sei un collega, so che capirai”.
Fissai intontito quelle due presenze che avevano invaso la mia intimità.
Non parlai, non riuscivo ad emettere nessun suono. Ero sconvolto, quello era il momento più doloroso.
Il più giovane dei due mi raggiunse e mi mise una mano sulla spalla cercando di dirigermi verso l’uscita con movimenti delicati.
“Mi dispiace ma dobbiamo procedere con la stagnatura del feretro” disse il becchino che restò accanto a mio padre.
Il suo tono era delicato e rispettoso, anche se sul suo volto si percepiva una certa mancanza di empatia.
“Stai un po’ con tua madre ora, è fuori in sala di attesa, sta parlando di te, ti vuole vicino”.
Queste furono le ultime parole che mi rivolse l’uomo che mi portò fuori dalla sala mortuaria, e quella fu l’ultima volta che vidi mio padre.

Fabrizio Bettinetti

Sono un bresciano classe 1987. Da sempre amo il cinema e la letteratura horror/thriller. Mi sono cimentato da poco nella scrittura, nessuna pretesa, lo scopo è di divertirmi e cerare di essere il più creativo possibile.



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