Il palo della cuccagna

Mi ero stabilito da poco in un grazioso paese. La vita salubre, all’aria aperta, faceva decisamente per me. Inoltre la gente era schietta e ospitale. Mi sentivo bene, ero felice. Avevo sentito parlare della famosa sagra di Ferragosto, detta anche sagra del diavolo.
Un’antica leggenda diceva che in quei giorni la gente del luogo impazzisse dando vita a una sanguinaria festa.
Naturalmente ci risi sopra. Erano un mucchio di sciocchezze, però Ferragosto era vicino e avrei potuto sperimentare la veridicità di quelle voci.
Fervevano i preparativi. L’intero paese era pieno zeppo di addobbi colorati. Tutti si adoperavano per la buona riuscita di quello che era considerato un evento indimenticabile.
“Vedrai, ci divertiremo!”, disse un tale battendomi una mano sulla spalla. Mi allungò un volantino e io lo lessi, incuriosito. Però, pensai, qui si fanno le cose sul serio. Era il programma della festa. Sarebbe iniziata alla grande con l’arrivo della banda musicale e poi, a seguire, la lotteria con ricchi premi in palio. Lo stand gastronomico proponeva un menu favoloso, da leccarsi i baffi.
La mattina del 15 agosto si sarebbe dato il via alle più ambite attrazioni: la gara dei sacchi e il palo della cuccagna. A seguire la premiazione dei vincitori e per finire, allo scoccare della mezzanotte, meravigliosi fuochi d’artificio avrebbero illuminato, gioiosi, quel meraviglioso cielo.
Anch’io mi sentivo elettrizzato, come tutto il resto della comunità.
Finalmente giunse il tanto agognato giorno.
Alle nove in punto il giudice diede vita alla gara dei sacchi. Lo speaker commentava l’andamento della competizione. Mi stupii vedendo che c’era uno strano chiosco. Nono vendeva bibite o gelati. Dietro il bancone c’era un ometto tutto pepe che raccoglieva le scommesse. Mi avvicinai per curiosare e lo vidi maneggiare banconote di grosso taglio. Un’opulente comare, con un piccino in braccio, aveva puntato sul numero 7 una cifra da capogiro.
Mi grattai la testa allibito e tornai ad assistere alla gara.
Sette giovani saltellavano goffi dentro ai sacchi calpestando una pista di terra rossa.
La gente si divertiva a vedere i ragazzi saltare a piedi uniti, perdere l’equilibrio, rialzarsi e rientrare in carreggiata. Tutti urlavano incitando il loro beniamino.
Avevano scommesso fior di quattrini sui concorrenti. Mi pareva una cosa folle. I giovani atleti parevano prendersela parecchio a cuore. Sudavano, coi volti distrutti dalla fatica e dalla tensione... una tensione che sembrava pian piano diventare insostenibile. Anch’io vivevo con ansia quella che sembrava una sentita guerra. Erano solo a metà di un lungo percorso quando vidi uno dei concorrenti incespicare e venire travolto da qualcosa. Aguzzai la vista e cercai di avvicinarmi il più possibile al malcapitato. Giaceva a terra sanguinante ed urlava come un forsennato. Feci per soccorrerlo ma un omone grande e grosso mi diede una spinta, facendomi rotolare via. Mi ritrovai seduto sull’erba mentre la gara incalzava come se nulla fosse successo.
In quel momento ebbi il sentore che la maledetta leggenda di Ferragosto fosse vera. Quella brava gente pareva aver subito un’insolazione. Erano tutti impazziti! La folla aveva gli occhi spiritati, un sadico sorriso sulle labbra spalancate nell’atto di urlare come ossessi. E quei giovani parevano gladiatori. Si scommetteva su di loro come se fossero cani, cavalli o semplici numeri.
Lo speaker, dall’alto del palco, non aveva mai pronunciato i loro nomi. Chi gareggiava? Il numero 7 era il favorito però avrebbe potuto vincere anche il 5. Chissà.
Mi rialzai e mi precipitai di nuovo vicino al povero numero 1 facendomi largo tra la folla. La grassa comare si stava sganasciando dalle risate vedendo un altro concorrente cadere a terra. Anche lui urlava di dolore e il sacco che lo conteneva pian piano si tinse di rosso. La cicciona vestita di nero si sfregava le mani e mi urlò nelle orecchie: “Questo è solo l’inizio del divertimento!”.
La fissai allibito mentre il suo volto arcigno si apriva in un perfido sorriso sdentato e gli occhi le roteavano rossi come fuoco. Mi fece così impressione che mi allontanai con uno scatto e mi avvicinai a un uomo apparentemente più tranquillo.
“Cosa sta succedendo?”, gli chiesi visibilmente preoccupato.
Lui mi rivolse uno sguardo allucinato e un sorriso compiaciuto, quindi chiuse la mano destra mimando una trappola che si chiude repentina in una morsa. Quel tala aveva proprio ragione. Sul percorso erano state nascoste innumerevoli tagliole. Lo avevano fatto apposta. Faceva parte di quel subdolo gioco.
I poveri concorrenti con gli sguardi stralunati, offuscati dalla fatica e dal terrore... Metà di loro giaceva a terra urlando in preda a un dolore straziante. Quattro giovani smaniavano in una pozza di sangue, sotto il sole cocente. Gli altri furono più fortunati. Non incapparono in quelle maledette trappole.
Infine il numero 7 giunse sfinito al traguardo. Era arrivato sano e salvo. Sudava, rideva e piangeva. Fu caricato in spalla da grossi uomini e gli vennero tributati gli onori del vincitore.
“Ora dobbiamo togliere di là quei poveretti. Qualcuno mi aiuti a liberarli. Poi provvederemo a pulire le ferite e a medicarle”, urlai cercando di attirare l’attenzione di qualcuno. Mi si rivoltarono tutti contro e fui costretto a lasciar perdere.

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Intanto la folla si era trasferita dove si svolgeva la gara più importante della giornata: il palo della cuccagna.
Mi si accapponò la pelle al solo pensiero delle orribili torture alle quali avremmo assistito. Quale altra diavoleria avevano inventato?
Altri giovani pallidi e titubanti si presentarono sulla piattaforma. La voce dello speaker gracchiava deliziata dentro il microfono.
Si apprestava a gareggiare il numero 1. Un biondino lungo e secco si avventurò sul palo in cima al quale erano appesi ricchi premi: salami, provole, cotechini e mortadelle. Il poveretto cercava disperatamente di salire, si aggrappava come poteva a quell’infausto palo untuoso. Era agile come un gatto, tanto che arrivò in breve tempo fino a metà percorso. Poi però la fatica cominciò a farsi sentire. Divenne paonazzo e, quando le forze lo abbandonarono, si lasciò andare con lo sguardo terreo, nella silenziosa attesa che qualcosa di terribile accadesse.
Avevo i nervi tesi fino allo spasmo. Il pubblico rumoreggiava.
Il rossore invadeva le guance del biondino. Nel momento in cui cominciò a scivolare giù, sotto di lui si aprirono due mostruose ganasce di metallo che accompagnarono la sua disgraziata discesa. Il numero 1 stramazzò al suolo, col corpo squartato.
Altri cinque giovani vennero sacrificati. Il numero 3 vinse la gara ed ebbe il tributo della folla inneggiante. Fu portato in spalla, incoronato e acclamato come eroe.
I fuochi d’artificio furono meravigliosi, accompagnati da una musica divina. Io riuscivo solo a piangere disperato.
All’improvviso però, sentii nascere dentro una gioia inattesa e straripante. Ero trasformato. Cominciai a ridere a crepapelle e a battere le mani all’unisono con gli altri. Ero diventato a tutti gli effetti uno degli abitanti di quel grazioso paese. Mi rivolsi allo speaker, gli tesi la mano, gli feci addirittura i complimenti per la riuscita di quella grandiosa sagra.
“Al prossimo anno!”, esclamò salutandomi con calore, “Chissà che non le capiti la fortuna di gareggiare”.

Patrizia Benetti



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