Picasso

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2003 - edizione 2

Non capivo più nulla. Ero come stonato da qualcosa d’immateriale, come se il mio corpo fluttuasse invece che ancorarsi al pavimento. Ma quale pavimento? Dov’ero io? E cosa mai mi stava stonando così tanto? Quelle luci psichedeliche sembravano tanti uccelli che sbattevano le ali contro mille lampadine, provocandomi un frastuono visivo che mi delirava. Forse era questo che mi stonava? Ma non capivo nulla lo stesso, sentivo solo che il mio corpo non mi apparteneva più. Avvertivo l’imprecisa sensazione di sonno, che mi dava nausea. Avevo la testa che vomitava pensieri e contropensieri; il cuore che provava spinte e controspinte; la mia vista che piangeva alle forti luci intermittenti. Ma dov’ero io? E cosa ci faceva tutto questo sangue intorno a me? E dire che non lo sentivo nemmeno impastarsi sotto i miei piedi nudi.

Lo avvertivo e basta. Mi toccavo la faccia, e sentivo ogni sua parte tirarsi in direzioni diverse ed opposte l’una dall’altra. Questa sensazione di orrore, scendeva fino agli impulsi meno perbenisti del mio IO, eppure non mi riconoscevo più. Il mio viso, o ciò che ne rimaneva, era spostato, sconvolto geometricamente. Il mio viso, illuminato a flash dalle ali nervose di mille uccelli intermittenti, non aveva più un’anima, se mai prima l’avesse avuta. Era un concerto di segni illeggibili. Una maschera deformata che mi strappò un urlo gelato e rarefatto, come quelle luci alcoliche che m’ingoiavano. No, non mi riconoscevo più, e tutto quel sangue mi faceva paura. Cosa diavolo m’era mai successo? Perchè non ero più io? Perchè il mio viso, simbolo piacente della cultura dominante, bandiera salubre del sistema borghese, ora era la ruvida parete di una pietra secolare? Lo sentivo sotto le mie dita. E più lo toccavo, più vi riconoscevo l’orrenda tela, di un bellissimo Picasso.

Mauro Fradegradi