La casa in costruzione

Il lavoro procedeva piuttosto lento da alcuni giorni, ma già sugli archi delle fondamenta si delineavano i muri della casa in costruzione.
Era la seconda casa che si costruiva in quella contrada deserta dove non giungevano i rumori della città lontana, ai piedi della selva.
L’altra casa era già costruita da vari anni, e l’abitava un principe. Dalla selva veniva talvolta il grido dei pipistrelli, e nel mese di maggio cantavano gli usignoli.
Gli operai che costruivano la casa dovevano fare un lungo tragitto ogni mattina, perché la città era assai lontana, e perciò la mano d’opera richiedeva spese ingenti. Tutti si rifiutavano di prestare il lavoro per una costruzione così lontana dall’abitato, ai piedi di quella selva dove nessun cacciatore era entrato mai e dove abitavano gli animali più strani. Si credeva, infatti, che il Principe vi tenesse nascosto qualche lupo e qualche giaguaro, perché egli amava molto le belve, e non voleva che alcuno le disturbasse.
L'unico conforto per gli operai che costruiscono la casa era quello di ammirare la faccia del giovane Principe. Tutti lo chiamavano così per la sua bellezza, ma egli non era un principe. Era bensì un poeta, ma ricco come un principe e bello come un dio. La sua casa splendeva di notte come un clavicembalo d'oro, con le finestre di argento da cui partivano fasci di luce che andavano a lambire le cime della selva durante le notti illuni.
Tutti lo chiamavano principe per la sua bellezza ma egli era semplicemente un uomo ricco che possedeva un magnifico palazzo e un’immensa selva.
Quando un poeta è ricco può essere facilmente scambiato per un principe.
Nonostante il lungo tragitto della mattina, gli operai avevano consentito a lavorare nella fabbrica perché verso il tramonto il principe usciva dalla sua villa e assisteva sorridendo ai lavori.
Egli si interessava assai a quella costruzione che aveva anche cercato di favorire, cedendo senza alcun compenso l'area a un signore che gliela aveva chiesta; perché egli era un poeta che amava gli uomini e desiderava ardentemente di vedere l’umanità felice. Avrebbe ceduto tutti i suoi terreni per vedervi sorgere gli edifici. Le case che fumano, le finestre che si schiudono, i lumi che appaiono e scompaiono, i bambini che si affacciano dietro i vetri, i gerani che fioriscono sui davanzali, le servettine che spolverano i tappeti sulle terrazze, erano tutte cose che il poeta amava vedere intorno a sé, perché per suo conto era assai felice e gli piaceva amare tutta l'umanità.
Egli avevo veduto scavare le fondamenta che si erano poi riempite di tufo e di calcina. Aveva veduto dal profondo della terra innalzarsi gli archi di muratura, e su quegli archi aveva visto appoggiare le basi dei muri. Già la nuova casa si delineava nel suo piano, e c’era a pochi passi una larga pozza di calce che aveva, di notte, gli stessi bagliori della luna. Più in là era un mucchio di terra bruna che aveva delle venature sanguigne e grandi massi di calcestruzzo erano pronti - misterioso impasto di selce battuta, di pozzolana e di calce - la cui tenacia è grande e tiene a freno le membra della casa come i tendini e i muscoli attanagliano le membra umane. Grandi piramidi di tufo sporgevano accanto alla pozza di calce e più in là erano accatastati gli occhiuti tavelloni, lisci, giallognoli, e non già costruiti, come si poteva credere, per favorire i nidi dei colombi, bensì per formare i pavimenti su cui dovevano risuonare i passi degli uomini.
Il poeta mirava tutto ciò da una delle sue finestre bifore, i cui stipiti erano stati tolti da un palazzo veneziano che apparteneva a un suo zio milionario. Quegli stipiti erano intarsiati di pietre che splendevano talvolta come gemme. Il poeta ne conosceva le più lievi venature e le più delicate iridescenze, come conosceva le dita della sua mano e i suoi gioielli. Si interessava a una quantità di cose che per gli altri uomini hanno lieve importanza, o anche nessuna. Sapeva, per esempio, che una cagna del guardiano era incinta, ed egli la andava a trovare tutti i giorni nel canile della selva, e le portava lo zucchero e i biscotti. Non voleva che fossero disturbate alcune talpe che avevano finito di distruggere un orto di carciofi e proteggeva i nidi degli uccelli dalle insidie dei gufi e dei serpenti. Aveva fatto anche allargare una tettoia affinché i nidi delle rondini fossero al riparo dagli uragani. Trascorreva interi pomeriggi occupandosi del piccolo mondo di animali e di piante che viveva a spese della sua selva e del suo palazzo. Ma quello che maggiormente occupava la fantasia del poeta era la casa in costruzione. Durante tutta la notte egli da una delle sue terrazze stette a guardare la casa. Al lume della Luna la selva appariva più vasta, più misteriosa, più folta. I lavori della fabbrica assumevano una solennità pacata e grave.
Già egli la vedeva innalzarsi fino al tetto, già la vedeva chiusa dalle finestre e piena di lumi, con gli inquilini che passavano da una stanza all'altra, con le cucine luccicanti, con le tende alle finestre che si gonfiavano come petti femminili, con tutta l’intimità delicata di cui le fiammelle elettriche dietro le tende sono un vago indizio discreto quando si accendono e si spengono nella notte. Egli, con la sua fantasia, enumerava e distingueva i diversi inquilini. Immaginava al primo piano una straniera, dalle abitudini sedentarie. Ella doveva essere una creatura un poco strana, un poco pallida e non più giovane. Era sola, il marito era morto già da qualche anno. Si capiva anche che suo marito doveva essere stato un generale.
Nel secondo piano abitavano due famiglie. Le servettine spolveravano i tappeti, la moglie dell'avvocato aveva molta cura dei fiori, si affacciava spesso alla finestra, ma non guardava nessuno. Era un poco triste perché non aveva bambini, mentre la moglie dell'ingegnere ne aveva quattro che si rincorrevano da una stanza all'altra tutto il giorno, ed ella li spiava sospirando. Al terzo piano c'èra una sarta con molte ragazze che facevano all'amore in città e pensavano alla città guardando spesso alla finestra. Una stanza si illuminava, un’altra si faceva buia. Tutte le finestre vivevano, tutte le stanze avevano un colore, un segno, qualche cosa che le distingueva l’una dall’altra...
Il poeta guardava poi la calcina, il tufo, le piastrelle, i mattoni... Ma la casa che doveva venir fuori da quel materiale - egli pensava - sarà un'altra! La casa è fatta di una certa tappezzeria, di un certo colore, di una certa luce. La casa ha il viso di chi ci sta dentro, non già l'aspetto della sua facciata. Gli operai sono artefici inconsapevoli. Forse che essi sanno che cosa verrà fuori da quel cemento e da quei mattoni? Sanno che verrà un edificio di tre piani, col tetto rosso e la facciata di travertino: tanti metri, tanto ferro, tanto sasso, tanto legno, tante porte, tante finestre. Ma essi non sanno che la casa poi si trasfigura, che le pareti battute dai desideri assumono un aspetto che nessuno può prevedere, se non forse un poeta...

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Il poeta andò un giorno a trovare gli operai, ed ecco che il lavoro che languiva un poco si fece a un tratto alacre, fervido, intenso.
Il poeta si mise a elogiare l'opera che sorgeva con parole di fede così veementi che scendevano nel cuore degli uomini. Per quanto fosse alta la sua celebrazione, quegli uomini capirono tutto. Essi videro nobilitato, esaltato il loro mestiere che assurgeva all'idealità di una missione.
- Voi misurate il sasso, la calce, il tufo, il gesso, l'acqua: voi riunite questi elementi che qui giacciono informi e che assumeranno, per merito vostro, un aspetto di vita. La vita è come un soffio che arriva dalla foresta. È uno spirito, più che un soffio, che l'umanità spinge verso di voi. Voi accogliete quello spirito vagabondo, gli date un asilo. Ed ecco, si trasfigura in creature pensose che amano, in sorrisi che si illuminano alle finestre, in uomini di azione che dalle stesse finestre, da cui i bambini sorridono, lanciano le loro miracolose applicazioni dell’elettricità e delle onde aeree attraverso i mari. Che importa se qualcuno, stanco, sporga dal davanzale il suo volto triste? Egli ha già rinnovato parecchie volte la sua anima specchiandosi tutte le mattine nell'anima del suo bimbo. Se si affaccia, già sorride, e l'odore della selva forse lo conforterà. Che egli guardi le stelle della sua casa, e forse si salverà. Voi, intanto, sospendete i vostri balconi alla facciata della casa perché Primavera possa infiorarli coi suoi gerani. Se la Poesia non avesse un albergo, essa non potrebbe battere a nessuno uscio: e voi date un albergo alla Poesia. Se l'amore non avesse un nido, esso non potrebbe dare alcun sorriso all'infanzia: e voi date un nido all'amore. Se la scienza non avesse un’officina, non potrebbe dare agli uomini il mezzo di volare attraverso gli spazi e comunicare attraverso gli oceani: e voi date un’officina alla scienza. Voi date tutto agli uomini, dando loro una casa. Voi fate sì che l'alba possa entrare nella stanza del poeta, tutte le mattine, vestita di viola, e fate sì che egli possa scambiare tra una finestra e l'altra i suoi sorrisi. Tutta la gioia di vivere, per cui si moltiplicano le case, non è forse in virtù di un sorriso scambiato tra una finestra e l'altra?
Il poeta esaltò con tale ardore di fede l'opera degli scuri artefici, che quelli non si mossero neppure quando il fischio dell'assistente annunziò che il lavoro della giornata era finito.
Uno strano desiderio animava tutti quegli uomini. Essi anelavano, ormai, a vedere la casa finita. Nessuno quella sera pensò di lasciare il lavoro. Tutti dimenticarono la propria casa, per occuparsi di quella che essi costruivano per gli altri. E come la Luna splendeva limpidissima in cielo diffondendo la sua chiarità fascinatrice, quella notte si compì una specie di miracolo: tutta la notte al lume della Luna si continuò a fabbricare la casa, e le mura si innalzarono di parecchi metri, le ossature e i piani dell'edificio si eressero come per incanto, sospinti da un’attività febbrile. Attorno al chiaro edificio, quegli esseri umani si aggiravano come ombre, mentre dalla selva - ad esaltare il lavoro degli uomini - cantavano gli usignoli con cuore di poeti, e con fede di amanti. E così svegliarono tutti i raggi della Luna che si erano addormentati sui banchi di calce...
Il poeta mirò dalla sua finestra quel prodigio della volontà umana compiuto dalla magia delle sue parole, e di nessun poema si compiacque veramente come di quella fantasmagoria che egli aveva mutato in realtà con la sua celebrazione della casa, mentre la Luna con la sua chiarità fantasiosa che acuisce negli uomini le speranze inaccessibili, faceva fluttuare i suoni e le distanze e rendeva immateriali i confini della selva.

***

La casa si era innalzata di parecchi metri, e già appariva la sagoma delle ultime finestre e dei balconi.
Ma ecco che, la sera dopo, uno sconosciuto si avvicinò alla casa in costruzione, salì le scale di legno fino al ponte che congiungeva le armature degli archi, e andò a sedersi proprio là dove gli operai si erano raggruppati per gettare lo stucco sui rosoni delle finestre.
Nessuno sapeva da dove egli venisse, nessuno sapeva chi fosse, nessuno aveva mai visto un volto così pallido e una bocca così amara, sebbene gli occhi apparissero dolci e tristi e bellissimi.
Ma quando gli operai udirono la sua voce, una specie di sgomento li colse. Essi erano atterriti e attratti, nello stesso tempo, da quella voce, e il primo loro movimento fu di ribellione, tanta era l'amarezza delle parole che l'uomo misterioso pronunciava. Ma bastava guardarlo negli occhi per capire con quanta pietà egli le proferisse.
- Io vi ho visti lavorare stanotte al lume della luna, e ho avuto pietà di voi. Invece di dormire, invece di riposare in pace, avete lasciato le vostre mogli e le vostre madri in ansia tutta la notte per innalzare di qualche metro una casa che non vi appartiene, che non sarà mai vostra, come non fu vostra alcuna delle altre case da voi costruite. Io vi ho visti agitati tutta la notte, mentre la Luna vi illuminava con la sua faccia di cadavere. Tutti si burlavano di voi, stanotte, mentre le vostre spose piangevano. E tu, vecchio, che ti affanni con il tuo secchio, ce l'hai, tu, una casa? Perché, se sai costruire un palazzo, hai lasciato morire tua madre in una baracca di legno? Francamente, io preferirei costruire un ospedale: così almeno avrei la speranza di poterlo un giorno abitare! Tutti si burlavano di voi stanotte, dal più sdolcinato degli usignoli all'ultimo dei rospi. Io solo vi ho difeso contro tutti, perché eravate suggestionati da un poeta che vi ammirava dalla finestra fumando le sue voluttuose sigarette. Disgraziati! Egli vi ha descritto una casa che non esiste! Per concepire una esistenza nella sua maniera, bisogna essere felici, bisogna possedere un palazzo, bisogna essere ricchi. Ora nessuno di voi è felice, nessuno di voi è ricco, nessuno di voi possiede un palazzo. Egli ha immaginato, in questa casa, degli uomini che mai la abiteranno! Egli ha visto solo sorrisi alle finestre, sorrisi alle porte, sorrisi alle terrazze. Storie! Storie! Gli uomini che abiteranno questa casa saranno come tutti gli altri: uomini vestiti di nero o di grigio, uomini che bevono l’assenzio e parlano di affari; uomini che bestemmiano, che ingannano, che rubano. Uno di quegli uomini ucciderà la moglie perché dalla sua finestra avrà lungamente ammirato quel poeta troppo bello e se ne sarà invaghita. Ecco la prima vittima del poeta che fece costruire la casa agitando sulle porte le vecchie illusioni! Ecco la prima bara che passerà da quella porta! Ecco l'effetto dei sorrisi scambiati da una finestra all'altra! Tra il dormiveglia dell'uomo che vive delle sue passioni, della sua bassezza, delle sue fatiche e dei suoi peccati, forse che l'alba di viola si insinua fra le persiane per confortarlo? Ahimé! Dite piuttosto un brivido che fa trasalire... perché? Come? Chissà! Ma, certo, niente altro che un brivido... niente altro che uno scricchiolio che non si sa se sia dentro di voi o dentro qualche mobile, che vi afferra al primo risveglio, che vi prende alla gola: è la voce mattutina del rimorso per tutto quello che l’uomo ha fatto e per tutto quello che non ha fatto... È l'angoscia di vivere che riprende indistintamente tutti gli uomini ogni mattina; un brivido, un sussulto, una stretta al cuore che non gli fa male, no, ma lo avverte, semplicemente lo avverte che incomincia una nuova giornata e che la vita è triste. Andiamo, via! Forse che la vostra casa è diversa? La casa che voi abitate fu già costruita da altri, e sugli usci indugiano gli usurai, i creditori, gli uomini obliqui e le povere femmine che non hanno più bellezza. Simile alla vostra sarà questa casa. Voi la vedete, ora, popolata da tutte le sue ombre: il sospetto, l’odio, la follia, l’infermità, la fame... Non vi crucciate! Sono le ombre famigliari con cui vi imbattete ogni giorno al limitare dei vostri usci. Mille voci si leveranno a maledirla, questa casa, perché gli uomini che passano la giovinezza e la vecchiaia nelle case altrui maledicono sempre quella in cui soffrono, e perciò le maledicono tutte!

***

Improvvisamente si udì, dalle finestre vuote, come lo sbattere di imposte aperte e chiuse da una folata di vento.
Allibirono tutti. E poiché il crepuscolo rifletteva un fascio di luce rossa sulle travi del ponte, essi credettero di vedere, nella loro allucinazione (o realtà?), un bagliore di incendio.
Nulla dà un brivido di terrore più gelido come udire gli usci sbattere alle occhiaie vuote di una fabbrica che è solo fatta di ferro e di sasso.
Ma non soltanto gli usci invisibili si udirono sbattere: bensì alcune donne scarmigliate apparvero sul limitare, e a una portavano via il figlio, a un’altra lo sposo; una terza, con la faccia livida, tremava per la febbre. Già era notte. Dalle finestre illuminate del palazzo del poeta venivano le note di un concerto. Gli operai cercarono, istintivamente, l’uomo che aveva evocato tanti spettri di paura, ma non lo videro più. Allora, pazzi di terrore, scesero a precipizio dall’impalcatura e corsero a rifugiarsi nelle loro case...

***

Il giorno dopo qualcuno si recò dal poeta e gli narrò ciò che aveva visto, scongiurando di indurre gli operai a riprendere il lavoro.
Ma nessuno volle più ascoltarlo. Nessuno voleva più saperne dei poeti.
Con grandi stenti, si cercarono altri uomini per finire di fabbricare la casa che oggi è piena di inquilini. E c’è chi vede i gerani in fiore alle sue finestre, e c’è chi vede uscire dalla porta qualche funerale.

Luigi Antonelli

Luigi Antonelli (Castilenti, 22 gennaio 1877 - Pescara, 21 novembre 1942) è stato un drammaturgo italiano. Dopo gli iniziali studi di medicina, si dedicò alla letteratura. Trascorse alcuni anni in Argentina, a Buenos Aires, dove diresse il giornale La patria degli Italiani. Autore di commedie e racconti, la sua opera va collegata, insieme con quella di Chiarelli, Rosso di S. Secondo e Cavacchioli, ai princìpi del cosiddetto "teatro grottesco" che, nel secondo decennio del Novecento, si opponeva allo psicologismo borghese del teatro italiano dell'epoca. Egli va individuato tra i protagonisti di quel tentativo di rinnovamento del teatro italiano, che cercò la liberazione dalle forme di un realismo ormai convenzionale e stantìo. Affrancandosi dal convenzionalismo e dagli schemi dell'intrattenimento borghese in nome della libera invenzione fantastica, Antonelli si spinge a costruire un teatro che smette di preoccuparsi di espedienti, come la coerenza e la logicità, e che al contrario mira a una vera e propria dissoluzione dei personaggi, dei tempi, delle vicende, lasciandosi guidare da un'ironia spesso polemica (Wikipedia).



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