Rembrandt

Sedevo solitario in un angolo buio. Lamentavo la mia opera. I rivoli di sangue scendevano lungo tutto il suo corpo. Una certa perversione mi incollò lo sguardo a quel cadavere appeso al grosso gancio. Sembrava ne volessi approfittare. Ma era solo l’orrenda sensazione di essere come onnipotente, di essere come Dio. Io, povero garzone di un mattatoio ancora più povero. Io, sporco nelle mani come nell’animo, non potevo essere Dio. Eppure la sua luce, benchè fioca, riusciva a oltrepassare gli spiragli delle piccole finestre, e cadeva ovattata tra me e quel cadavere. Stava scendendo la sera. E in estate arriva così lentamente, che in quel giorno temevo non arrivasse più. Mai la notte l’avevo desiderata come allora. Non c’era più Dio ormai, non c’era più fede alcuna, che poteva aiutarmi.
Stavo lì, nel buio, distaccato da quel cadavere, i cui organi ormai puzzavano per il troppo calore. Sì, lì dentro si soffocava e sudava. Il mattatoio, dopo l’ora di chiusura, privo di ogni forma vivente, diventava serrato e claustrofobico come una tomba. Eppure, nonostante il puzzo ed il sudore, ammiravo quel corpo straziato.

Già, proprio come un pittore ammira la sua tela nell’anonimato di un angolo scuro del suo studio, io, povero garzone sporco di sangue, ammiravo appartato un quadro orrendo, dipinto col mio ed il suo sangue. Ero diviso dal resto del mondo. Allontanato da ogni pensiero edificante. Esiliato con forza dalla normalità. Guardavo quel corpo squartato, con l’amore di un padre verso il figlio. Guardavo, da escluso, un dolore e un orrore che avevo generato. Poco distante da quel cadavere lacerato, vi era appesa la carcassa di un grosso bue macellato per bene. Che differenza c’era tra quei due cadaveri? Tra quelle due carni, quale diversità correva? Neanche Rembrandt avrebbe potuto fare di meglio.

Mauro Fradegradi