Sedevo
solitario in un angolo buio. Lamentavo la mia opera. I rivoli di sangue scendevano lungo
tutto il suo corpo. Una certa perversione mi incollò lo sguardo a quel cadavere appeso al
grosso gancio. Sembrava ne volessi approfittare. Ma era solo lorrenda sensazione di
essere come onnipotente, di essere come Dio. Io, povero garzone di un mattatoio ancora
più povero. Io, sporco nelle mani come nellanimo, non potevo essere Dio. Eppure la
sua luce, benchè fioca, riusciva a oltrepassare gli spiragli delle piccole finestre, e
cadeva ovattata tra me e quel cadavere. Stava scendendo la sera. E in estate arriva così
lentamente, che in quel giorno temevo non arrivasse più. Mai la notte lavevo
desiderata come allora. Non cera più Dio ormai, non cera più fede alcuna,
che poteva aiutarmi.
Stavo lì, nel buio, distaccato da quel cadavere, i cui organi ormai puzzavano per il
troppo calore. Sì, lì dentro si soffocava e sudava. Il mattatoio, dopo lora di
chiusura, privo di ogni forma vivente, diventava serrato e claustrofobico come una tomba.
Eppure, nonostante il puzzo ed il sudore, ammiravo quel corpo straziato.
Già, proprio come un pittore ammira la sua tela nellanonimato di un angolo scuro del suo studio, io, povero garzone sporco di sangue, ammiravo appartato un quadro orrendo, dipinto col mio ed il suo sangue. Ero diviso dal resto del mondo. Allontanato da ogni pensiero edificante. Esiliato con forza dalla normalità. Guardavo quel corpo squartato, con lamore di un padre verso il figlio. Guardavo, da escluso, un dolore e un orrore che avevo generato. Poco distante da quel cadavere lacerato, vi era appesa la carcassa di un grosso bue macellato per bene. Che differenza cera tra quei due cadaveri? Tra quelle due carni, quale diversità correva? Neanche Rembrandt avrebbe potuto fare di meglio.