
C’è nebbia, nel cimitero.
Una foschia sottile e sfilacciata come uno spettro, che si impiglia tra le croci, scivola lungo i muretti e le lapidi inclinate, si mescola all’odore umido della terra.
Un bagliore improvviso rivela la statua di un angelo consumata dal tempo: le ali spezzate, il volto deturpato, un unico occhio che sembra fissarti.
E poi, d’un tratto, il mondo si spezza in una miriade di quadratini.
La nebbia diventa un pattern grigio, la terra una scacchiera di marroni, la luna un cerchio perfetto. Il corvo si riduce a tre pixel neri che battono le ali su un cielo finto.
Benvenuti nel 1985.
Benvenuti nel cimitero di Ghosts ’n Goblins.
Il capolavoro di Capcom ebbe il merito indiscusso di portare l’horror gotico nel cuore rumoroso delle sale giochi. Mentre tutto attorno era un tripudio di invasioni aliene, corse automobilistiche e botte da orbi, noi ci calavamo in epopea medievale fatta di scheletri, zombie e dannati dell’inferno.
In Ghosts ’n Goblins non c’è salvezza, solo una marcia funebre che si ripete continuamente. Ogni livello è una discesa più profonda dell'inferno, dal cimitero alla città fantasma, dalle caverne ai ponti di fuoco, fino al castello di Astaroth dove la fine somiglia troppo all’inizio.
Prima ancora che arrivassero i vari “Resident Evil” e i moderni videogiochi horror, fu il Commodore 64 negli anni ‘80, il vero pioniere dei survival horror. Se avete passato interi pomeriggi a giocare a “Ghosts'n Goblins”, “Cauldron”, “Forbidden Forest” o “The Castles of Doctor Creep”, Commodore 64 horror è il libro che fa per voi. Disponibile in ebook e cartaceo illustrato al super prezzo di 4.90 €
Ma c’è qualcosa di terribilmente umano, in questo inferno a 8-bit.
Sir Arthur, cavaliere solitario che avanza tra i morti armato solo del suo coraggio e di una lancia. L’armatura che cade, il corpo che resta nudo e vulnerabile, come se il gioco volesse ricordarti che sotto ogni corazza c’è sempre un uomo solo. Sir Arthur siamo noi, ogni giorno che perdiamo una parte della nostra armatura affrontando una vita che a volte cerca di ricacciarci indietro. Sir Arthur è ogni uomo, ogni donna che avanza tra le proprie rovine interiori cercando di non arrendersi al buio.
Ghosts ’n Goblins è una delle più potenti metafore della vita nelle quali mi sia imbattuto, la conferma che gli insegnamenti migliori su quest’ultima li ho ricevuti a suon di gettoni. Il gioco, come la vita, che ti punisce per ogni errore, ti illude di potercela fare, poi ti strappa la speranza di dosso insieme all’armatura. Ogni colpo subito riduce Arthur in mutande, un gesto umiliante e ironico che, a ben guardare, è anche un atto di smascheramento. Ma l’eroe, nudo davanti al male, continua a combattere perché ha uno scopo e così diventa l’eroe non solo della sua bella ma di tutti noi.
Arthur è l’archetipo del cavaliere errante, condannato a cercare una redenzione che impossibile. Quando dopo ore di sofferenza finalmente riuscivi a sconfiggere Astaroth e a salvare la principessa, il gioco ti rivelava che era tutto un inganno: “Congratulation! This room is an illusion and trap devised by Satan.”
E così ti toccava ricominciare da capo, rivivere di nuovo ogni morte, ogni salto mancato, ogni gargoyle riemerso dal nulla, ogni umiliazione. E se ti bastavano i soldi, se eri abbastanza bravo e abbastanza fortunato, allora potevi sperare di salvarla davvero, l’accidenti di principessa. Perché a quel punto non te ne fregava più niente di lei, l’amore cavalleresco scendeva in secondo piano. Diventava una questione di principio tra te e Lui.
In tutto questo, c’è un’intuizione quasi metafisica.
La paura non è tanto quella di morire, ma di non poter smettere di farlo. L’horror di Ghosts ’n Goblins non è l’attimo dello spavento, ma la condanna alla ripetizione. L’idea che anche quando pensi di aver finito, l’incubo ricomincia esattamente da dove era partito.
Un messaggio disturbante, soprattutto in un’epoca in cui il videogioco era ancora innocente, un passatempo per ragazzini, non un memento mori digitale.
Oggi lo ricordo con nostalgia, ma è una nostalgia dal sapore ambiguo.
Rivedere Sir Arthur che corre in mutande tra le tombe fa sorridere, eppure dietro al sorriso c’è la consapevolezza che, sotto a quella grafica elementare e quella trama forse ingenua, si muoveva qualcosa di oscuro, un abisso che aveva il volto di Astaroth.
Astaroth non era un nome inventato.
Nelle antiche demonologie costui era un Gran Duca dell’Inferno, signore dell’inganno e della vanità, avversario diretto di San Bartolomeo. Nella tradizione agiografica, il santo lo incatena e lo costringe a confessare la propria caduta, simbolo della vittoria dello spirito sull’inganno.
E così, quasi per caso o forse per un’intuizione antica come il mito, Ghosts ’n Goblins rievocava quella lotta, con Arthur nelle vesti di un nuovo Bartolomeo, armato solo di una lancia e della propria ostinazione, chiamato a varcare le soglie dell’inferno per affrontare il demone nel suo stesso regno.
In quel cimitero digitale si consumava il rito arcaico dell’uomo che sfida il male.
E la principessa rapita non è soltanto il premio finale, bensì la metafora della fede stessa, della purezza perduta che l’uomo tenta di riconquistare. Ma in Ghosts ’n Goblins la fede è un miraggio — promessa, sottratta e infine rivelata come inganno. Così Arthur è costretto a rimettersi nuovamente alla prova, se vuole ritrovare uno scopo.
È per questo che ogni volta che passo davanti a un cimitero, da qualche parte dentro di me un eroe in mutande si ridesta e brama la sua armatura per riprendere la lotta. Perché il bene vince sempre solo se siamo disposti a fare la nostra parte.
Insert coin.
Sono tornato, Astaroth.
(Oreste Patrone: 5 novembre 2025)
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