Quella villa accanto al cimitero

Regia: Lucio Fulci
Cast: Katherine MacColl, Paolo Malco, Giovanni Frezza, Ania Pieroni, Dagmar Lassander, Giovanni De Nava
Soggetto e sceneggiatura: Elisa Livia Briganti, Lucio Fulci, Dardano Sacchetti
Produzione: Fulvia Film (Fabrizio De Angelis)
Fotografia: Sergio Salvati
Montaggio: Vincenzo Tomassi
Effetti speciali: Giannetto De Rossi
Scenografia. Massimo Lentini
Musiche: Walter Rizzati
Anno: 1981

Trama

Il ricercatore newyorkese Norman Boyle (Paolo Malco) è incaricato dalla sua università di recarsi a New Whitby, nel New England, per proseguire le ricerche del dottor Peterson, morto suicida dopo aver massacrato la sua famiglia e la sua assistente.
Giunto, con la moglie Lucy (Kathrine MacColl) e il figlioletto Bob (Giovanni Frezza), in quella che pare essere una tranquilla cittadina di provincia, il dottor Boyle si rende subito conto che qualcosa di strano, di misterioso, si cela dietro le apparenze: a cominciare dalla vecchia casa in cui i nuovi arrivati si sistemano, dove di notte si sentono inquietanti rumori e che nasconde addirittura, sotto un polveroso tappeto, una pietra tombale...
Ben presto, Norman si renderà conto che il dottor Peterson aveva abbandonato le sue ricerche quando era venuto a conoscenza di una misteriosa, sinistra storia, quella di Jacob Tess Freudstein, un chirurgo vissuto alla fine dell’Ottocento che era stato radiato dall’albo dei medici: lo stesso medico il cui nome è stato scolpito su quella lapide.
Chi era Jacob Freudstein? Perché Peterson ne era ossessionato? E soprattutto: perché la sua tomba non si trova? I Boyle lo scopriranno; ma a caro, carissimo prezzo.

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Recensione

Quella villa accanto al cimitero è l’ultimo capitolo di quella che viene ormai definita - insieme a ... E tu vivrai nel terrore! L’aldilà (su cui ho avuto già il piacere di scrivere una recensione per Scheletri.com) e Paura nella città dei morti viventi - la Trilogia della morte, firmata da Lucio Fulci. Un nome che fa pensare a una saga; in realtà, i film sono autoconclusivi e slegati tra loro. Eppure, un denominatore comune c’è, ed è condensato in quel calzante epiteto che i francesi - e bisogna dire che ci avevano visto molto più lungo di noi italiani rispetto all’opera di Fulci... - affibbiarono al regista romano, quello di poète du macabre.
In queste tre pellicole Fulci sveste infatti i panni del narratore - e se si pensa a quanto invece l’intreccio, le sue dinamiche e le sue “sorprese” siano fondamentali per la buona riuscita di un film horror come di qualunque altro film “di genere”, viene fuori tutta la carica eversiva e anarchica di Lucio Fulci, il suo “terrorismo”, come qualcuno ha notato - e indossa quelli del poeta espressionista: la trama, ridotta all’osso, è solo il pretesto per il susseguirsi di sequenze in cui angoscia, terrore e raccapriccio promanano unicamente da elementi estetici, esasperati e deformati dall’espressionismo fulciano, e vengono quindi comunicati allo spettatore attraverso un linguaggio analogico, indefinito e irrazionale ma proprio per questo più immediato e potente di qualunque racconto logico e trasparente.

In Quella villa accanto al cimitero tali dinamiche espressive sembrano ancor più accentuate, per certi versi, che negli altri due capitoli: i pochi snodi narrativi del film, attraverso cui il dottor Boyle aggiunge nuovi tasselli al mistero che avviluppa la truce vicenda del suo predecessore, trovano spazio soltanto in brevi sequenze e in scarni dialoghi di poche battute, se non in una manciata di parole che i personaggi rimuginano tra sé e sé, tanto che persino la spiegazione finale - cardine narratologico di tanti horror - è affidata a due o tre frasette esclamate dal protagonista nel momento in cui si ritrova faccia a faccia con la verità. Risultano poi dilatati, rispetto ai film precedenti, gli spazi riservati al “non detto”, cioè a quei particolari della vicenda che vengono lasciati del tutto irrisolti: resta inspiegato l’apparente lapsus in cui inciampano due personaggi secondari, che durante uno scambio di battute con il dottor Boyle dicono di averlo visto a New Whitby già qualche mese prima del suo trasferimento – uno di essi afferma di averlo visto in compagnia della “figlia”, ma Boyle ha solo un figlio maschio... - mentre invece costui controbatte di non esserci mai stato in precedenza; come rimangono ignote le vicende relative a Mary Freudstein e alla figlia Mae in relazione al ruolo decisivo che soprattutto quest’ultima assumerà nella pellicola. Eppure, tali reticenze e omissioni a livello dell’intreccio contribuiscono a una resa paradossalmente realistica in termini di mistero, angoscia, paura, orrore: essi sono figli del Caos, l’entità irrazionale, dionisiaca, assurda per antonomasia, che proprio in virtù di tali caratteri è capace di generare il più puro terrore.

Quella villa accanto al cimitero si distingue poi nettamente dagli altri due film della trilogia fulciana per il particolare campionario di suggestioni inquietanti e orrorifiche che vuole trasmettere, afferenti alla sfera del misterioso, della follia e dell’aberrazione scientifica piuttosto che a quella dell’orrore ancestrale e soprannaturale. Tale impostazione permette alla pellicola di rifarsi alla tradizione del romanzo gotico e della ghost story di epoca vittoriana, la prima incarnata dalla sinistra villa in cui la famiglia Boyle si ritrova ad abitare, la seconda dai personaggi di Mary e Mae Freudstein, che riescono anche a diversificare i toni del film, consentendogli qualche lieve virata “positiva” verso il fantastico, soprattutto nei pur brevi momenti in cui si sofferma sull’amicizia tra Bob e Mae.
Il fulcro dell’espressionismo macabro di Fulci si rivela prepotentemente nelle sequenze più truculente, dove l’effetto destabilizzante, già di per sé dato dalla totale assenza di filtri nel mostrare corpi squartati, arti amputati disseminati qua e là come sul banco di un beccaio, teste mozze, viscere e frattaglie sanguinolente, viene amplificato dalla lente deformante di Fulci, attraverso la quale essi assumono valenze simboliche, apparendo come il risultato della più mostruosa delle aberrazioni, quella compiuta in nome di una scienza che ha perso ogni connotazione positiva e salvifica ed è degenerata ai livelli della più turpe magia nera, o anche come causa scatenante della follia del dottor Peterson: davvero orripilante, ma allo stesso tempo straziante, la scena in cui Norman Boyle ascolta i vaneggiamenti del suo predecessore incisi su audiocassetta, che si mutano in urla forsennate allorché una delirante pseudosoggettiva fa rivivere allo spettatore - e a Boyle stesso, sconvolto a tal punto da bruciare infine il nastro – l’immenso orrore di Peterson nel ritrovare il corpo di sua moglie fatto a pezzi e quello, orrendamente massacrato, del figlioletto. Non sono però da meno le scene più oniriche e visionarie, che traggono dalle inquietudini insite negli oggetti che costituiscono la quotidianità più banale: degna di nota è la scena del manichino, la cui testa, in una visione del piccolo Bob, viene mozzata da una forza invisibile con tanto di sangue e carne viva che si materializzano inspiegabilmente all’interno della plastica inerte; oppure la sequenza in cui un pipistrello uscito dalla cantina di casa Boyle si attacca vampirescamente alla mano di Norman e molla la presa solo quando costui lo massacra a forbiciate (schizzando peraltro di sangue il viso dello spaurito figlioletto…).

Suggestiva appare anche la vena simbolista del poeta Fulci, presente soprattutto nel rapporto che s’instaura tra gli abitanti della tetra villetta e la cantina: una cantina da fiaba, archetipo del luogo dove non si può e non si deve assolutamente entrare perché custode del male, da cui provengono rumori sinistri, che instillano negli inquilini la netta, inquietante sensazione che laggiù ci sia qualcosa, o meglio qualcuno, di mostruoso, di malvagio, al punto che lo stesso Norman rimanda più volte il momento in cui sbloccherà la serratura della vecchia porta e scenderà finalmente nel budello tenebroso, umido e pieno di ragnatele, dove si accede tramite una ripida e sgangherata scalinata che sembra condurre nel buio dell’ignoto e che solo nelle scene finali della pellicola i protagonisti riusciranno a percorrere fino in fondo, dove si annida l’orrore-verità, che però va affrontato a tutti i costi, anche a quello più alto. Quella villa accanto al cimitero può davvero intendersi, dunque, come una truce fiaba contemporanea, dove l’esperienza dell’orrore diviene l’unico mezzo per poterlo combattere efficacemente e in cui spesso solo l’anima più pura e innocente, non contaminata dai mali del mondo e avvezza alla fantasia, può salvarsi (non a caso, il film si chiude con una bella citazione di Henri James: Nessuno saprà mai se i bambini sono mostri, o se i mostri sono bambini).
Come gli altri due capitoli della Trilogia della morte, anche quest’ultimo si presta bene alle critiche più distruttive, che rappresentano uno dei motivi principali dello stigma che colpisce ancor’oggi il cinema di genere italiano del ventennio ‘70-’80. Si potrebbe, ad esempio, rimproverare Fulci di non aver inventato nulla, e di aver, al contrario, scopiazzato qua e là e mescolato il tutto nel suo crogiolo cinematografico per camuffarlo da idea originale, così da creare negli spettatori ridondanze più o meno subliminali di film più celebri e osannati e vendere di più e meglio il suo prodotto. Oppure, lo si potrebbe accusare di aver confezionato l’ennesimo prodotto dai gravi difetti formali, dove alcuni effetti speciali appaiono palesemente finti (come si nota, ad esempio, nella scena del pipistrello). Ebbene, nulla è più vero. Il film contiene vari rimandi a opere cinematografiche – nonché letterarie – più fortunate e note: a cominciare da Shining, uscito solo un anno prima di Quella villa accanto al cimitero, da cui è mutuata la componente paranormale della storia e che ha sicuramente dettato la scelta del piccolo protagonista (Giovanni Frezza) per la sua somiglianza con Danny Lloyd alias Danny Torrance; per arrivare a Frankenstein, che offre molti spunti alla cornice narrativa della pellicola fulciana e che viene apertamente omaggiato nel nome del misterioso scienziato (Freudstein) le cui folli ricerche hanno fatto impazzire il dottor Peterson.

Non bisogna tuttavia dimenticare l’ambiente cinematografico in cui Fulci opera: quello delle produzioni low budget, che nel caso del genere horror era molto più “low” di quelle che, ad esempio, riguardavano generi molto più gettonati nell’Italia degli anni ’70 e ‘80, come il thriller e il poliziottesco. In questo tipo di produzioni la regola imperante era quella del massimo guadagno con il minimo investimento e, proprio per via dell’estrema importanza dell’aspetto commerciale e finanziario, i produttori erano onnipotenti e invadevano il campo del regista e degli sceneggiatori, imponendo contenuti economicamente vantaggiosi – come le stesse scopiazzature da film ben più famosi e fortunati, le immancabili scene di nudo e di sesso, ecc. – con cui interpolare le sceneggiature, dettando tempi di lavorazione davvero stretti, offrendo strumenti tecnici e scenici spesso davvero esigui. È chiaro che, in contesti simili, i cineasti dovevano essere artigiani oltreché artisti, in grado di conciliare abilmente la propria vena creativa con la realtà contingente e, in definitiva, di “volare basso”.
Soprattutto, non bisogna dimenticare come Fulci abbia saputo magistralmente relegare gli elementi più facilmente tacciabili di mera imitazione in una struttura narrativa così esile da rasentare l’evanescenza, e affidare a quelli che normalmente sono i dettagli di una storia il ruolo della storia stessa, offrendogli anzi la possibilità di sperimentare una nuova maniera – questa davvero originale e inedita, bisogna dirlo – di fare cinema horror e di realizzare, nonostante le enormi difficoltà, veri e propri capolavori. Quella villa accanto al cimitero non è da meno: la poesia della morte vibra qui nelle sue corde più misteriose e inquietanti, e colpisce con una potenza devastante, sconosciuta - va notato - a tante altre pellicole che, nonostante abbiano avuto dalla loro budget molto più ampi e produttori molto meno invadenti, non hanno saputo brillare di una luce così sinistramente intensa.
(Salvatore Napoli)



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