La stitichezza di Alberto Sanusi

Sette settimane. Nessuna sofferenza. Magari il problema restavano i peti, così mefitici che lui stesso si tratteneva dal vomitarsi addosso. Per quel dilemma era riuscito, negli ultimi giorni, a modulare l’apertura del deretano per farle senza rumore. Se stava seduto in ufficio o in auto schiacciava il peso corporeo su una chiappa, inclinando il busto da un lato e la schiena dalla parte opposta per lasciare semi-aperto l’ano e mantenere la postura indiscriminata. Il vortice o il finestrino facevano il loro lavoro celermente, e se ne liberava prima di dare di stomaco; in piedi, aspettava la solitudine nella corsia del supermercato e rilasciava rumorosamente il gas simil-nervino: nel caso si fosse avvicinato qualcheduno avrebbe detto che sicuramente qualche alimento in scatola era scaduto, che era colpa della direzione che non mandava i giusti controlli agli alimenti in vendita, prima o poi gli avrebbe fatto causa, era uno schifo. Nel vicolo buio invece addebitava la causa ai netturbini che ficcavano i sacchetti stracolmi nelle fogne, pur di correre al bar per rubarsi lo stipendio, quei delinquenti.
Chiunque non avrebbe mai osato dire che fosse stato lui. Una puzza così non aveva nulla di fisiologicamente umano.

Fatto sta che Alberto Sanusi, ultimamente un po’ sovrappeso – ancora meglio dire appesantito, più della norma – erano quasi cinquanta giorni che non cacava.
Si sforzava, eccome se lo faceva, tanto da strattonarsi l’anello rettale che spesso e malvoluto sanguinava copiosamente. Niente.
Si purgava per hobby: scendeva in gola il Dulcolax con un bicchiere di olio di ricino. Ancora niente.
Una mattina di ferie, non avendo mai un beneamato da fare, preferì inserirsi nel colon prima uno, poi due dita, poi se lo tenne aperto con entrambe e con l’altra mano ci infilò un cucchiaino metallico, di quelli lunghi e sottili per girare i cocktails nel bicchiere Collins.
Solitamente si dedicava ai momenti amarcord sfogliando le foto del primo giorno del viaggio di nozze, delle quali preferiva le immagini con la sua compagna come unico soggetto. Scappata con l’animatore diciassettenne etiope giusto il giorno dopo. Difatti, erano sette foto. Contando anche quelle della funzione in chiesa.
Quella mattina di ferie, nonostante le prime tre settimane di stitichezza e il suo iniziale rigonfiamento addominale, scoprì di non avere merda addosso. Intestino vuoto. Ma tanto, tanto puzzo. Quasi rischiò di lasciare il cucchiaino incastrato nel sigma, per rialzarsi veloce e fuggire da quell’odore rivoltante. Ed era suo, quell’odore.
Di farsi una rettoscopia manco a pensarne. Per Alberto “né dolore, né spina nel cuore”. La sua era curiosità. Non si sognava di farsi inculare da un tubo correlato di telecamera. Per filmare cosa, poi? Una tubatura tissutale piena di niente, piena di aria. Ecco, la questione restavano le flatulenze. Se non le sopportava lui manco il più abituato medico privo di naso avrebbe resistito a quel lezzo. Ad Alberto faceva venire in mente la maldigestione da parte di uno stomaco ulceroso di cibo scaduto da un mese prima vomitato, poi impanato e fritto e poi ingoiato. La visione gli fece ricordare le puttanate di quelli di Jackass che seguiva da giovane, poi ritornò dubbioso perché si trattava del suo stomaco. Ma non gli faceva male, quindi né spina nel cuore. Tornò spensierato.
Né dolore, né spina nel cuore, ma trascorse altre tre settimane i rumori ventrali risultavano troppo imbarazzanti. La gente poteva credere alla bugia delle puzze, ma i suoni intestinali erano palesi: provenivano dal suo corpo.
Giacché s’era annoiato della visione del suo vastissimo book fotografico dell’indimenticabile viaggio di nozze (e di pensare che la sua ex era finalmente appagata da qualcosa migliore di quel ridicolo appendicolo che si ritrovava tra le gambe), un’altra mattina di ferie Alberto si sentì in dovere di indagare nuovamente tra i meandri della parte finale del suo apparato digerente.
Affaticato, tirò via il lenzuolo rilasciando scoregge stagnanti dalla notte trascorsa. Tossì, gli venne un conato, non vomitò. Lo stomaco era vuoto, negli ultimi tempi avrebbe digerito un masso in poche ore. E avrebbe continuato a non cacare.
Fatta fuori la puzza in due-tre boccate, allungò una mano sul comodino e prelevò un cucchiaino da uno degli innumerevoli bicchieri sporchi di stracciatella che facevano da soprammobile insieme alla sveglia e piatti incrostati di ogni tipo di cibaria cucinata e cruda. Lo pulì sul guanciale, innalzò le gambe e sì chiavò brutale il metallo nel culo. Fece “tìn”. Balzò fuorì.
Seguì un borbottio cattivo e fragoroso viscerale, Alberto vibrò dalla testa ai piedi, il letto insieme a lui.
Piegandosi con difficoltà per accomodarsi seduto, Alberto notò qualcosa muoversi prima tra l’ombelico e un fianco, dopo alla base dello sterno, dentro. Tutto poi si acquietò, in seguito al rilascio di una soffiata dal basso pressoché stordente che lo fece svenire.
Al suo risveglio si tastò l’epa divenuta un lucido melone rosa irremovibile.
Né dolore, né spina nel cuore. Richiuse gli occhi e si addormentò.
L’ultima settimana, la settima, se la prese di malattia da lavoro.
Notte e giorno teneva le finestre aperte. Arbre Magique attaccati al soffitto, incenso piantato a terra e candele alla vaniglia su ogni mobile risultavano senza scopo. Purché ci sguazzasse dentro, Alberto non fu capace di abituarsi alla graveolenza che egli stesso sfiatava via. Gli richiamava le esalazioni sulfuree di un cadavere tenuto in un’armadietto di una palestra usata decine di volte al giorno durante tutto il mese di Agosto e sotterrato in una montagna di visceri di pesci lasciati marcire sulla sabbia rovente. No, pensava Alberto, è troppo limitativa come definizione di puzza.
Le poche volte che riuscì a rotolare via dal letto, calpestando piatti di carta, resti di stoviglie e avanzi in decomposizione – tanto chi avrebbe sentito quell’effluvio? – Alberto le sfruttò per poggiarsi al frigo e spazzolare via carne cruda, zucchero, latte scaduto, gusci di uova...
Fino a quando, masticando un osso di pollo spolpato e secco di tre giorni, dalla sua pancia non si udì una specie di schiamazzo soffocato, come lo strizzare di una pezza per asciugare il pavimento.
Fu lì che Alberto avvertì uno strizzare delle budella. Lo stomaco in fiamme, ruttò aria fetida e vecchia. Si accorse che i glutei gli si stavano allontanandosi dallo sfintere. L’intestino gli si caricò gravissimo sul bacino, la forza di gravità gli tirava le anche verso l’assito.
Tanto dolore, niente spina nel cuore. Tanta soddisfazione.
Strinse le chiappe con le mani dato che i muscoli della parete addominale gli si afflosciarono in corpo. Liquido color del petrolio gli colava da un orlo dei pantaloni del pigiama slabrato.
Decise di raggiungere il bagno: a passi pesanti e scattosi, rilasciava la colata nera tenendosi il sedere tra le mani. Somigliava a un enorme lumaca con indosso un salvagente color carne. Peti ruggenti sbuffavano nubi tanto invisibili quanto tossiche che provocavano ad Alberto conati liquidi, così che si rovesciò addosso una poltiglia rossiccia di grumi di carne cruda immersi in latte giallino.
Nei pressi del wc, gli si lanciò sopra e si sforzò di evacuare. Provò una dolenza mai subita prima di allora: gli si allargò così tanto la circonferenza anale che gli si stracciò il perineo come un pezzo di carta tirato troppo ai lati. Alberto si spolmonò contemporaneamente allo strattonarsi del piccolo, medio e grande gluteo. Una chiappa si sporse così tanto da far entrare un lato del bordo del water dentro Alberto, che continuava a strillare per il male ottenebrante e la appagante liberazione.
Qualcos’altro gridò, strana. Da sotto. Dalla tazza.
Alberto Sanusi, sgonfio, disfatto, si lasciò cadere a terra con un tonfo rorido nei suoi fiotti corporei. Socchiuse le palpebre. Cercò di mettere a fuoco le ultime immagini – le più interessanti della sua vita: intravide una sfera grigio-verdastra sulla quale decine di imbuti sbavanti si aprivano/chiudevano famelici, insaziabili, spruzzando coaguli di sangue e feci; una sinuosità molle serpeggiava verso l’alto traslando la sfera, muovendosi con piccole e lunghe e sottili estremità a forma di anello e ventosa e uncino.
Aleggiò in direzione del suo ospite quando questi era riuscito a morire un momento prima che quell’essere gli divorasse le interiora spappolate.

Antonio Liccardo "il Collezionista di Attimi"