Togliti di dosso

S'era messa dietro di me, morbida e dritta e doppia. Di una mano, i polpastrelli immobili sentivano la sua pelle sulla mia schiena. Un’epidermide stropicciata su una pancia infinita.
La sua testa mi era in faccia. Mi ci lasciava sbavare sopra, senza scomporsi.
In bocca avevo il sapore dei capelli e del sudore. I miei. Il suo alito era in realtà il mio.
Dal collo fino a un ginocchio mi ricopriva la sua unica e sottile ala. Se ci avessi soffiato sotto si sarebbe involata, lasciandomi sgusciare via. In quel momento, invece, era la cosa più pesante che vi possa venir in mente. E non riuscii nemmeno a formulare il solo pensiero di divincolarmi.
Attorno alla caviglia della gamba scoperta, un lazo. Una corda, pensavo. C’era qualcosa comunque che mi avviluppava il piede. Non stringeva, ma avevo la sensazione che se avessi fatto un movimento brusco si
sarebbe stretta, inchiodandomi per sempre. Mi convinsi, senza alcun motivo, che sarebbe andata così.
Allo stesso modo, però, mi accorsi che non era un posto grandioso in cui stare: era una situazione che si poteva evitare.
Mentre la metà destra del cervello schiaffeggiava la sinistra per decidere sul da farsi, richiusi la bocca che m’era rimasta mezza aperta e mi accorsi del rivolo di saliva tra labbra e mento.
Le mani rimasero immobili, non avrei potuto tirare via quel filo di bava. La percezione di umidiccio in altro luogo e tempo m’avrebbe fatto rivoltare lo stomaco. Lì non accadde. Restai immobile.
Fu quando tutta la mente si sgombrò dal torpore che decisi di reagire. O per meglio dire, la mente fu pronta all’azione. Il corpo no.
In momenti come questo per darmi forza penso di poter andare a correre, ma poi immagino che le gambe non sarebbero d’accordo. Allora passo al pensiero di fumarmi una sigaretta seduto sulla finestra, ma i glutei mi si strizzano al ricordo del marmo freddo.

Mi resta l’ultima: scrivere. Mettermi a scrivere. Al pc, con la penna, su un pezzo di carta straccia, sulle mani.
Scrivere. Qualsiasi cosa.
Finalmente la carne sembrò accettare quest’idea, con un piccolo sussulto consenziente. Senza però muoversi di un millimetro.
Le meningi si spostarono a ciò che più mi teneva immobile.
“Togliti di dosso”, compose la testa.
Ciò che mi teneva legato in quello stato non sembrò ascoltarmi.
“Togliti di dosso: devo scrivere!” pensai per più volte, a volte con più intensità, qualche volta lo boccheggiai, in un solo momento ne mormorai flebilmente le vocali.
Niente.
La prima volta che chi tace è contrario. Ma lei è fatta così.
Calcolai, con la mente ancora un po’ intorpidita, ch’ero inchiodato in quello stato da un quarto d’ora scarso.
Non potevo nemmeno immaginare che erano trascorse più di due ore da quando avevo abboccato a quell’esca troppo golosa. Era più forte di me, non riuscivo a resisterle, nonostante sapessi fin da subito che fine avrei fatto. Come ogni volta.
Trattenni il respiro e con violenza spinsi la pancia in fuori. Non riuscivo a spostare via la membrana che mi copriva il petto.
Strisciai il piede lontano dal resto del mio corpo quasi incoscientemente. Il cappio che lo circondava non diede modo di essere aggressivo per il movimento, anzi: lo seguì mollemente, come un’alga sul
bagnasciuga. Quell’immagine mi fece schifo, e fu più vivido il caldo schiumoso che avevo dalla bocca al collo e continuava a sgorgarmi: una goccia ogni mille anni.
Ero al limite. Non ne potevo più.
Spalancai gli occhi di colpo, sbottai un colpo di fiato (così forte che per poco non ho sputato), con un colpo di reni saltai via, poggiai rovinosamente i piedi a terra, strattonai in aria ciò che mi ricopriva il ventre e le braccia.
Sentii la voglia di lasciarmi cadere sbracato a terra, ma fui più veloce e mi lanciai lontano da lì.
Mi sedetti rovinoso, quasi mi lasciai cadere sulla sedia girevole, che dal peso improvviso si abbassò leggermente.
Accesi il computer. A occhi socchiusi ascoltavo il grattare del caricamento del sistema operativo.
Prima di cliccare sull’icona del blocco note, mi voltai di lato.
Mezza coperta era a terra e l’altra metà mi seguì fino alla scrivania. Pareva una mano allungata perfidamente verso di me, con l’intenzione di ghermirmi e mai più lasciarmi.
Tirai via dalla caviglia una canottiera che avevo usato la notte prima, e la lanciai sul cuscino ammaccato e un po’ bagnato sul letto sfatto.
Sorrisi con trionfo, e tornai al monitor del pc.
“Stavolta sono stato più forte. Non so se domani riuscirò di nuovo. Per ora ce l’ho fatta”.
Chissà se non mi rispose per darmi ragione o perché avevo torto marcio.
Ma, come ho già detto, la pigrizia è fatta così.

 

Scrissi ciò che avete appena finito di leggere. Sembra inutile, ma mi ha salvato la vita dal nulla.
Almeno per oggi.

Antonio Liccardo "il Collezionista di Attimi"