Il buio era ciò che 
    percepivano i sensi. Una nebbia che colorava di nero e inebriava 
    d’inchiostro. Ma per uno come lui i riscontri oggettivi erano limiti da 
    abbattere, se non con gli occhi, con la fantasia. Qualunque immagine, reale 
    o supposta che fosse, avrebbe colmato l’ignoranza.
    Fu così che perseverò, agitando dita schiave di una frenesia ingiustificata 
    dai fatti. L’essenza del suo zelo era il bisogno di vendere l’ignoto a chi 
    lo avrebbe liquidato con l’unico Dio a cui si prostra la società.
    Così avanzò finché un qualcosa gli avvinghiò il pomo d’adamo.
    Fu un attimo. Un rumore, simile a un’arancia che esplode sotto uno stivale, 
    scacciò la quiete. Poi crebbe un nuovo silenzio e con esso un dolore non 
    localizzato.
    L’uomo avrebbe voluto denunciare il suo dramma, sputare quel sangue sulla 
    cui sorgente si era sempre affacciato per mostrarla ai curiosi. Ma non vi 
    riuscì: le corde vocali gli erano state strappate da scheletri nati dal 
    nulla che lo circondava.
  Un tambureggiare prese a fare compagnia alla quiete. Non erano le 
  contrazioni delle mascelle dell’uomo a produrlo, bensì il sussurrare di 
  un’entità avviluppata nell’ombra. Una creatura che liberava la sua 
  dialettica al ritmo di una leva di una macchina da scrivere che si abbatte 
  su un rullo di scorrimento: era la sentenza del mostro.
  Da quella notte senza tempo l’uomo non avrebbe più cucito le vesti dei suoi 
  benamati assassini sul corpo degli sconosciuti, né avrebbe sciolto misteri 
  intrecciati negli abissi dell’ignoto; sarebbe stato solo, con i mostri cari 
  al suo intelletto: creature abituate a dissanguare gli innocenti, 
  lasciandoli annaspare sotto una luce che divora la loro intimità e la vomita 
  nelle piazze pubbliche.
  Da allora in poi i quotidiani sarebbero sembrati oceani privi di acqua, 
  almeno finché il sole non li avesse depurati dall’inganno della notizia.