Tristi, malinconici ricordi

E' inutile negarlo: anche l’estate finisce, prima o poi. E cosa resta dopo? Oltre alla malinconia, dico. I ricordi. Sì, grande invenzione. Così almeno se non sei abbastanza depresso puoi metterti a pensare ai bei vecchi tempi, con quel sorriso da ebete in faccia, che la maggior parte delle volte significa solo incapacità di essere razionale. O che sei troppo debole per affrontare il presente.
A ogni modo, ancora un giorno, e saremmo tornati a casa. E fare cosa, poi? Peppe aveva la sua ragazza ad aspettarlo, baci, tette, e compagnia carnosa compresi. Non mi sarebbe dispiaciuto essere al suo posto. Anche se ciò avrebbe comportato a un vocabolario limitato alle sole parolacce. Un compromesso però più che accettabile.
Pietro aveva i videogiochi, e la sua esistenza sembrava immolata a quelle diavolerie elettroniche su cui si consumava occhi e dita. Per lui niente fica, ma questo evidentemente non era un punto focale del suo stile di vita.
A me invece sarebbero restati solo i ricordi.
E quindi, una volta a casa, niente più Teresa. Sì, la tizia che lavorava al bar sulla spiaggia, quella che sembrava non disporre di vestiti più lunghi di dieci centimetri, quella bellissima, impossibile da descrivere.
Non credo si trattasse di amore, lo ammetto, perché i miei occhi puntavano fin troppo spesso su parti specifiche del corpo di lei. Ma interrogarmi in proposito non era una cosa che mi interessava.
Due settimane di ferie al mare, due settimane di prese in giro da parte dei miei amici, due settimane a infierire sul portafoglio per comprare sempre qualcosa al bar dove lavorava, e ancora non ero riuscito a invitarla fuori. Poi, finalmente, la piacevole sorpresa. Probabilmente, ero stato davvero bravo con gli sguardi, e il mio viso doveva essere stato molto espressivo, perché - benedizione celeste! - fu lei a chiedermi di fare due chiacchiere in privato. Il giorno successivo. Quello destinato al nostro rientro. Mi pareva impossibile.
Visto che alloggiavamo in un appartamento dei suoi di Pietro, riuscii a far sentire i miei due amici in colpa per via della mia mancanza di iniziativa in faccende di cuore, e pertanto acconsentirono a rimanere un giorno in più.
Chissà adesso dove sono. Mi staranno maledicendo in tutte le lingue che conoscono - e Peppe avrà inventato chissà quante nuove offese. A patto che siano ancora vivi, certo.

 

L’appuntamento con Teresa era a un vecchio edificio, che ora aveva più cose in comune con la polvere e il marciume che non con il termine ‘edifico’. Questo se ne stava lì, in disparte - recintato da un fitto gruppo di erbacce - chissà con quale disagio vedendo lo splendore degli stabilimenti balneari che lo circondavano. Aveva però un suo fascino.
«Cos’è?», chiesi a Teresa, vedendo che per di lì non passavano interessanti argomenti di discussione.
«Non ne ho idea. Lavoro qui ogni estate da, boh, otto anni, penso, e l’ho sempre visto. E sempre più messo male, se posso aggiungere.»
Avrei voluto dirle che poteva aggiungere tutto quello che voleva, ma la mia mente era stata catturata da un particolare: lavorava al bar da otto anni? Quindi qual era la sua età?
«Sì, ho ventinove anni. Capisco quello sguardo. Credi di essere il primo che me lo fa?»
«Pensavo di conoscere tutto sugli sguardi. Evidentemente non è così.»
Dio mio, ventinove anni. Io sarei arrivato a venticinque, a farla grande.
«E tu quanti ne hai?»
Decisi di mentire di grana grossa. «Venti... due», risposi. Effettivamente, non potevo esagerare più di tanto, perché la barba ancora si rifiutava di crescere, e sarebbe stato tanto se lei non mi avesse dato quindici anni o giù di lì.
«Te ne do venti al massimo.»
«Hai occhio, ragazza.» Ero a terra. Non che fossi contro le differenze d’età, ma evidentemente lei sì.
«Quindi capisci perché ti ho invitato qui.»
«Non penso per mostrarmi le meraviglie del sesso, giusto?»
«Cosa?»
«Scusa, spavalderia. È una cosa prettamente maschile. Dei ventenni, in particolar modo.»
«E se ti dico che ho un fidanzato che mi aspetta a casa?»
«Mi spezzi il cuore. Ma probabilmente me lo spezzerebbe comunque lui, assieme a qualcos’altro, se ci provassi con te.»
«Sei intelligente.»
«No, tremendamente realista.» E moralmente distrutto.
«Sei arrabbiato con me?»
«Mi piacerebbe, ma credo, beh, di non essere abbastanza grande per permettermi di farlo. La mia emotività non me lo autorizzerebbe.»
Restammo in silenzio qualche istante. Ero troppo arrabbiato e amareggiato per dire qualcosa.
Pensai allora che non potevo tornarmene dai miei amici a mani vuote, e decisi che dovevo dimostrare loro di aver fatto in qualche modo centro. Così, senza chiedere il permesso, estrassi il coltellino svizzero che mi portavo sempre dietro e iniziai a incidere, in maniera piuttosto rabbiosa, sul legno marcio della catapecchia un cuore con il mio nome e quello di Teresa.
Poi successe l’impensabile. No, nessun bacio, anche se non mi sarebbe dispiaciuto. Era qualcosa riguardante la vecchia baracca che Teresa aveva scelto per mandarmi a quel paese, francamente parlando. Perché non appena mi misi al lavoro, questa iniziò a tremare e a disperdere nell’aria più polvere di quanto fosse necessario.
Teresa mi guardò pensierosa, come se fosse stata colpa mia. Io alzai le spalle. Sperai che non fosse il suo fidanzato che si stava avvicinando a noi.
Le pareti iniziarono a riempirsi di crepe, il legno si staccò a poco a poco e si sparpagliò in mezzo alla sabbia. Poi giunse la puzza.
Considerandomi probabilmente ancora un bambino per i suoi standard, Teresa mi prese per mano e mi trascinò fuori da quel buco.
«Non l’aveva mai fatto, prima», mi disse.
«Per forza. Se l’avesse già fatto ora non sarebbe ancora in piedi.»
«E soprattutto niente puzza», aggiunse poi.
«Hai voglia. Niente clienti, altrimenti.»
Sopraggiunse in quel momento anche un verso gracchiante. Se avessi avuto tempo da perdere con la fantasia, avrei detto che si trattava di un urlo di dolore.
«E mai sentiti questi suoni!», replicò Teresa, ritenendosi responsabile del sottoscritto e, in quanto adulta, essere costretta a spiegarmi cosa stava succedendo perché troppo piccino per poter comprendere da solo.
La gente iniziò a raccogliersi lì vicino, perché in occasioni del genere la curiosità l’ha sempre vinta su qualsiasi altra sensazione. C’erano anche Peppe e Pietro, che mi lanciarono un occhiata. Io feci loro un OK con le dita, e mi sentii tremendamente fiero di me stesso. A raccontar balle ero sempre stato il migliore.
Poi riconobbi con nitidezza il vocione di Peppe mentre si esibiva in virtuosismi blasfemi, di certo non indirizzati alle mie capacità amorose, e capii che potevo impegnarmi a far finta quanto volevo, che tanto non ero io quello al centro dell’attenzione.
Vedendo il numeroso pubblico accorso, infatti, la baracca diede spettacolo, scomparendo lentamente dietro a una nube di polvere e sabbia. Quando riapparve, però, non ci fece una bella sorpresa.
Se ci avessi fatto caso, avrei sicuramente visto molte facce scontente, tra gli spettatori.

 

In quel momento non c’erano posto per le parole. Gli unici termini acconsentiti erano le a per formare le grida di terrore. Solo quelle. Mi riscoprii un banale fifone, come tutti, d’altro canto, e optai per un notevole urlo. Se Teresa avesse strillato un po’ meno forte, di sicuro avrei vinto io in quanto a estensione vocale.
Davanti a noi, infatti, c’era una specie di ragno, chiamiamolo così, alto però suppergiù tre metri, e lungo almeno il triplo. Forse si era trattato di un errore di Madre Natura, che quella volta aveva sonnecchiato quando era stato ora di dispensare le dimensioni. Quella bestia, che aveva una decina di zampe, era la baracca. O almeno questo fu il primo pensiero che mi passò per la mente. Forse era stata punita da qualche strano dio per la sua ferocia e trasformata in un pezzo di legno, o può darsi che si fosse semplicemente presa un lungo sonno e che quello che sembrava legno altro non era che, beh, sporcizia.
Lanciai uno sguardo furtivo a quella che doveva essere la bocca, ma mi fermai non appena i miei occhi incontrarono un paio di zanne che sarebbero state degne di far parte di qualche bestia preistorica. Poi tornai a fissare la sua mastodontica stazza, e a quel punto non ebbi più nessuna curiosità visiva da soddisfare.
Teresa fece il mio stesso pensiero e, stringendomi saldamente la mano, mi trascinò con sé. Mentre fuggivamo, tra gli schiamazzi confusi della gente, potevo sentire con chiarezza che, nonostante il pericolo, Peppe non aveva perso il buongusto in quante a parolacce.
Il ragno si mosse, ci sorpassò - sicuramente non ci aveva visto, nonostante abbondasse in quanto a occhi - e iniziò a fare quello che sicuramente era lo scopo per cui era nato: ammazzare la gente per ispirare i film horror.
Capendo quindi che non interessavamo al mostro, costrinsi Teresa allo stop. Forse era il momento per ringraziare me stesso di essere ancora troppo piccolo per certe cose. Cose quali essere mangiati da una creatura come quella, per esempio.
E così vidi mentre il ragno usufruiva dei suoi artigli per trafiggere, tagliare, tranciare, infilzare e trucidare i poveri bagnanti. Teste, braccia e gambe divennero ben presto quasi più numerosi dei granelli di sabbia, e il sangue si mise a gareggiare con il mare.
Accorsero i bagnini, ma i loro inverni passati a gonfiare i bicipiti non furono di grande aiuto. Ancora meno l’abbronzatura tanto curata.
Le nostre vite dipendevano da uomini in pantaloncini corti e con gli occhiali da sole. Dio mio.
«Potrei essere l’ultimo uomo a cui dai un bacio», dissi disperato a Teresa.
«Non ho nessun uomo qui accanto a me”, gracidò lei. «Invece, con quel tuo coltellino potresti fare qualcosa.»
«Mi sa che sono troppo piccolo. Potrei farmi male.»
Poi il ragno fece dietro front e si diresse verso di noi. Teresa capì che di individui per la preservazione della specie umana ne avrebbe potuti trovare a decine, e scappò via. In quel preciso istante mi resi conto che, no, non era assolutamente amore quello che provavo per lei.
In lontananza sentii le sirene dei carabinieri che si stavano avvicinando. Misi la mia salvezza nelle loro mani e mi preparai a svenire.

 

Dunque, ecco come sta finendo la mia estate. Su un letto d’ospedale. Mi hanno detto che è più facile contare le ossa che ho ancora intere rispetto a quelle fratturate. Non ho il coraggio di entrare nei particolari, e mi fido di quel che dicono.
Hanno anche detto che l’ho scampata per miracolo, che quel mostro ha combinato un massacro, giù alla spiaggia, che per abbatterlo avevano avvisato addirittura l’esercito, ma alla fine sono bastate le mitragliette d’ordinanza dei carabinieri, che io sono stato calpestato da una sua zampa o che sono inciampato e cadendo mi sono fatto piuttosto male. Ma i dottori sono più convinti della prima ipotesi.
Ripenso a Teresa, che mi aveva strappato il cuore - o qualcosa che d’estate lo sostituisce - e poi me l’ha ridato indietro senza neanche degnarsi di controllare se, mentre lo usava, l’aveva danneggiato.
Ripenso a Pietro, che con quel mostro avrà avuto modo di mettere in pratica tutto quello che aveva imparato con i videogiochi. Spero non usasse i trucchi quando giocava.
Ripenso a Peppe. Non oso immaginare a quali oscenità stia dando vita in questo momento. Spero solo non stia varcando i cancelli dell’aldilà e stia protestando più vivacemente degli altri.
Ripenso a questa estate, che, dio santo, non potevo proprio immaginare finisse in questa maniera.
E poi continuo a pensare ad Alessia, l’infermiera tirocinante che viene trovarmi appena può. Credo si sbottoni apposta il camice per farmi sentire meglio. Le sbircio il davanzale e lei sorride. Secondo me ci sta. Avrà la mia età. Forse qualche anno in più. Qualche, eh. Non nove.
Credo di piacerle. Non sarò bravo con le parole, ma penso di averla stregato con il mio sguardo.
In fondo, questo soggiorno all’ospedale non è tanto male. E spero finisca il più tardi possibile. Perché ho un sacco di ricordi di quest’estate. E non voglio che tornino a perseguitarmi come ogni volta.

Simone Corà