Roba genuina

Apro gli occhi e sono nel buio della mia stanza.
Come al solito il mio corpo si sveglia prima della mia mente, perciò ci vuole un po’ prima che mi volti verso la piccola sveglia sul comodino alla mia sinistra.
Le quattro e trenta.
Ho un leggero fastidio allo stomaco, devo aver mangiato troppo.
Nell’aria sento il famigliare odore di rame dolciastro, che aleggia denso e viscoso.
Lentamente prendo coscienza del resto del mio corpo sprofondato nel materasso un po’ troppo soffice e deformato. Forse dovrei cambiarlo, penso.
Dallo stomaco in disordine una grossa bolla di gas si scinde in due più piccole: una va verso l’alto e l’altra verso il basso. Mi muovo un po’ per facilitarne l’uscita. Arriva prima quella che ha preso l’ascensore verso i piani alti: un rutto soffocato e rantolante mi rotola fuori dalla bocca.
L’altra bolla gassosa è quasi arrivata all’uscita dall’altra parte. Per un attimo mi trattengo. Ammetto che certe cose mi imbarazzano, ma che diamine, mi sposto leggermente sul fianco e scoreggio. Va un po’ meglio.
Mi sento tutto appiccicaticcio e la cosa mi infastidisce. Adesso vado in bagno a darmi una sciacquata, anche se a dirla tutta sarebbe meglio una doccia, però potrei dar fastidio ai vicini, penso. Comunque, riavvio, per così dire, il motore e mi tiro su.
Non vedo nulla e sono ancora un poco rintronato. Mi viene da ruttare ancora mentre mi muovo con cautela verso la porta della camera.
Cos’è una tra le cose più dolorose che potrebbero capitarmi ora?
Inforco la gamba del letto tra le dita dei piedi: un dolore allucinante.
Soffio un paio di imprecazioni a denti stretti e raccolgo tra le mani il piede dolente. Poi, prima di perdere l’equilibrio, lo riappoggio con cautela e riprendo la marcia zoppicante verso la porta e il bagno.

Be’, la porta è socchiusa e la colpisco con la fronte mentre a tentoni cerco la maniglia: questa è un’altra delle cose di cui sopra.
Un bernoccolo mi pulsa immediatamente sopra l’arcata sopracciliare destra.
Entro in bagno e sono incerto, come sempre, se accendere la luce o no. Temo che i miei occhi non siano ancora pronti per un trauma del genere, ma visto e considerato che ho quasi fratturato le dita di un piede e ho un bel bernoccolo livido a testimonianza delle mie scarse facoltà di “brancolatore notturno”, decido di farmi del male accendendo le lampadine appollaiate sopra lo specchio.
Volto il capo, stringo forte gli occhi e “flash”. La luce filtrata dalle palpebre è rossa ed è sufficiente ad infastidirmi, ma primo o poi toccherà che li apra gli occhi: ancora cinque minuti, mamma, mi schernisco.
Mi sento le mani sporche e appiccicose. Allungo la destra verso le manopole del rubinetto tenendo la testa voltata e gli occhi ancora chiusi come saracinesche.
Non me ne accorgo subito, ma il rubinetto mi si infila nella larga manica della giacca del pigiama. Me ne accorgo quando ruoto la manopola e un fiotto gelato di acqua mi scorre dentro la manica fino all’ascella: una sferzata di ghiaccio. Spalanco anche gli occhi, proprio davanti alle tre sorelle, le lampadine, che mi fulminano la retina e mille aloni di tutti i colori mi aleggiano nel campo visivo.
Ora sono proprio sveglio.
Mi tolgo veloce la casacca e la butto con rabbia sul pavimento nell’angolo.
Metto a fuoco. I pallini luminosi stanno andando via.
Fisso lo specchio davanti a me, sopra l’occhio destro dove sorge il promontorio violaceo del bernoccolo. Poi lo sguardo scende lentamente, così come una nuova bolla gassosa sale. Rutto ancora. La faccia è una maschera di sangue rappreso e pezzetti di carne. Anche il petto, sembra che indossi un bavaglio tra il rosso e il marrone scuro. I peli del petto sono invischiati a tratti in una poltiglia, questa è una cosa che odio. Mi giro verso la casacca del pigiama afflosciata nell’angolo: anche lei è inzuppata di sangue rappreso.
Bel casino, penso.
Quando mi succede non ricordo mai bene i particolari. Il mio medico dice che nel mio corpo non c’è nulla che non va, è nella mia mente il problema.
Mi spoglio del tutto e, al diavolo i vicini, decido che una doccia è indispensabile, questa volta.
Mi gratto con una spazzola sotto la pioggia fitta di acqua bollente, mentre penso che dovrò buttare il pigiama e forse anche le federe e le lenzuola del matrimoniale, di fatto il sangue è difficile da togliere dai tessuti.
Dallo stomaco mi sale in bocca un fiotto acido, reflusso di succhi gastrici. Mi viene da sputare e lo faccio. Ho decisamente mangiato troppo, questa volta, e non roba di buona qualità. D’altronde, penso, ne è passato di tempo da che c’era la mia Margherita, con lei ho mangiato veramente bene, roba genuina delle nostre parti, mica roba importata e infarcita di schifezze come quella che si trova in giro adesso.
Esco dalla doccia e mi asciugo. Mi lavo i denti con cura e mi passo il filo interdentale al mentolo. Sputacchio dei pezzettini rossastri.
Sono le cinque e dieci quando torno in camera da letto per vestirmi. Ormai di dormire non se ne parla, e adesso mi tocca ripulire il casino. Spalanco i vetri della porta finestra, ma lascio chiuse le imposte di legno. Anche se è ancora presto, vuoi mai che qualcuno dalla strada mi guardi in camera mentre metto ordine.
Accendo la luce.
I resti della donna sono sparsi disordinatamente su tutto il letto. Tutto è coperto di sangue ed è difficile distinguere le varie parti.
Aggiro il letto e mi fisso su una cosa che sbuca da sotto il cuscino.
La mia Margherita era fatta di roba tutta sua, penso, adesso guarda qui, che schifezze che si fanno mettere. Raccolgo una sorta di sacca molliccia e gelatinosa. Tette al silicone. Chissà dove è finita l’altra? mi chiedo, e comincio a frugare in quel casino di ossa e interiora.
Bóh, prima o dopo salterà fuori, concludo.
Ammucchio tutto nel centro del letto e faccio un grosso fagotto con le lenzuola.
Devo dire che ho proprio un vizio di merda, rifletto guardando il fagotto insanguinato, e il mio dottore mi dice che la mia fame eccessiva non è un grave problema. Certo, mica gli ho detto che mi sono mangiato mia moglie Margherita e che di tanto in tanto mi tocca adescare una puttana per saziare il mio appetito.
Comunque, bando alle ciance, è ora di portare tutto fuori e fare un bel falò in campagna.
Scendo le scale fino alla cucina. Appoggio il sacco in un angolo, attento che non imbratti il muro. Mi preparo un caffè. Mi piace nero e forte.
Domani telefono al dottore, penso, gli devo dire di questi fastidiosi rigurgiti acidi. Forse mi può consigliare qualcosa per lo stomaco.

Luca Spennacchio