Psycho's Hotel

L'ente presso il quale svolgevo servizio civile aveva ottenuto in uso e rimesso in sesto un padiglione dell'ex ospedale psichiatrico della nostra città. L'intero complesso comprendeva circa dieci o quindici di quei padiglioni, che venivano ceduti dal comune ad enti morali, finanziandone la ristrutturazione.
Il padiglione numero 5, dove mi ero recato di mattina presto, era divenuto un centro di recupero e di riabilitazione per non vedenti. In esso vi erano anche preziosi macchinari per effettuare le visite di prevenzione oculistiche, un modo come un altro per ottenere ulteriori finanziamenti.
I compiti degli obiettori di coscienza erano molteplici: accompagnamenti, lavoro di ufficio, battitura testi e stampa di libri in Braille.
Proprio quest'ultima mansione prevedeva che uno di noi si recasse al centro di recupero, in quanto attrezzato con macchinari informatici tiflotecnici, e vi rimanesse per tutta la giornata. Per me era un'occasione di riposo, in quanto, a differenza dell'ufficio, lì non sarebbe mai squillato il telefono e nessuno sarebbe venuto a controllare.
L'ex manicomio, che si estendeva in un enorme parco alberato, presentava i vari padiglioni come grandi villette di due piani, sparse tra gli alberi e collegate da vialetti. Oggigiorno erano attivi solo tre padiglioni, tra cui il nostro, più quello riservato al custode, che stava proprio di fronte. Sebbene il sonno e la stanchezza della sera precedente mi consigliassero di stendermi, il caldo afoso di quel luogo chiuso non me lo permise. Decisi così di spalancare tutte le finestre per creare un minimo di corrente d'aria.
Sulla parete di un lungo corridoio vi erano appese le fotografie del centro prima e dopo i restauri. L'ex ospedale psichiatrico era stato abbandonato circa vent'anni prima e da allora più nessuno si era occupato della manutenzione. Foto di pareti scrostate, calcinacci mescolati a polvere e ragnatele, inferriate e letti accatastati negli angoli delle stanze prima dell'intervento, e pavimenti tirati a lucido ed incerati dopo.
In breve la mia curiosità fu stimolata a tal punto che decisi di fare un giro nel parco, per vedere lo stato di sfacelo dei vecchi padiglioni. Mi incamminai così lungo il vialetto principale, che scorreva tra i primi due padiglioni abbandonati.
Costruzioni fatiscenti ed in completo sfacelo presentavano vetri rotti ed alcune porte spalancate. Decisi di entrare in uno di questi. I calcinacci ricoprivano il pavimento e le ragnatele avvolgevano tutto. Trovai quello che restava delle vecchie cucine, della vecchia cappella e dell'impianto elettrico, con tanto di grandi fusibili con maniglia di ceramica.
Qualche stanza più avanti i locali erano allagati e così tornai sui miei passi. Dall'esterno parevano tutti uguali, tutti verde chiaro, tutti distrutti dal tempo. Eppure alcuni di loro erano riservati per la mensa, alcuni per lo studio, alcuni per il ricovero.
Infatti, il padiglione successivo che visitai era proprio adibito a quest'ultimo scopo. Lungo il corridoio principale erano montate delle doppie lampadine, una normale ed un'altra di colore blu scuro, che doveva restare accesa tutta la notte. Trovai delle camere piccolissime, con porte robuste e con l'intelaiatura del letto pressoché inchiodata al pavimento.
Avevo sentito mille storie su questo posto e stare lì dentro era molto suggestivo. Inoltre, sebbene molti vetri fossero distrutti, l'ambiente era chiuso e dimora di un'infinità di insetti. Superai il cadavere di un piccione morto, che maleodorava all'inverosimile, per recarmi in una stanza che presentava ancora le pareti imbottite ed una tavola munita di cinghie di pelle per assicurare il malato.

Uscito da quel padiglione avanzai verso il successivo, che pareva essere una sorta di magazzino. Là trovai degli schedari, migliaia di nomi dei ricoverati, appunti, radiografie, cartelle cliniche. Da quel momento cominciai a capire tante cose.
Trovai, per esempio, una sequenza di circa ducento radiografie, tutte identiche, tutte dello stesso paziente. Immaginai la quantità di radiazioni alle quali quell'uomo era stato esposto. Mi vennero in mente le storie delle torture di dottori ed infermieri ai danni del malati. Avanzai.
Trovai, in uno scantinato, un insieme di apparecchiature che oserei definire mostruose. Innanzitutto l'accesso non era per nulla impedito, si entrava, e si scendeva tramite una scala. Là sotto la quantità di mosche che ronzavano era enorme. Pareva di entrare in un muro di insetti. Alla mia destra vidi un'incubatrice, macchinari per l'elettroshock, busti di metallo, pieni di cinghie che parevano essere armature.
Imbragature tutte arrugginite che servivano come tortura, siringhe per le iniezioni di zolfo, che servivano per far salire la febbre ai malati e farli stare tranquilli qualche giorno. Mi vennero in mente le storie degli elettroshock fatti senza anestesia e dei corpi che saltavano di un metro dal letto per le contrazioni muscolari dovute alla tensione elettrica applicata.
Avevo avuto modo di parlare con un signore, ex infermiere di quel posto, che aveva visto molte di quelle mostruosità. Di lì a poco trovai la cosa forse più orribile tra quelle di cui mi aveva parlato. Si trattava di una macchina per l'apertura del cranio.
Era uno spartano lettino metallico, anch'esso pieno di cinghie di pelle, munito di una piccola sega circolare azionata a mano grazie ad una manovella riduttrice. La cosa più impressionante che vidi furono quelle cinghie oggi ammuffite, che correvano per tutto il corpo per immobilizzare il malato fino alle caviglie. Inutile dire che un cadavere non ha bisogno di essere legato. Mi sembrò addirittura di sentire delle sensazioni di dolore e di angoscia nell'avvicinarmi a quegli apparecchi.
In una cassa di legno, poco più avanti, trovai delle ossa, un contenitore pieno di femori e casse toraciche. Dapprima mi chiesi il motivo per il quale non fosse stata data sepoltura a quei resti, ma mi venne in mente che spesso si utilizzavano ossa deformi a scopo di studio clinico.
In effetti notati, per quanto la medicina non sia il mio ramo, delle evidenti forme di scogliosi e di altre deformità in quelle ossa. Una cassa di bottigliette per medicinali e di vetrini da microscopio era sigillata dalla polvere. Già tutto ciò che avevo visto in quelle due ore mi aveva creato un forte senso di disagio e di tristezza, ma ancora non era nulla.
Il successivo padiglione che andai a visitare conteneva fotografie, leggermente sbiadite, di pazienti con deformità fisiche e somatiche. Gente tenuta segretamente nascosta e rinchiusa tra quelle mura, trattata come bestie, persone fatte rinchiudere dai famigliari per nascondere le deformità dei propri figli.
Il disgusto nel vedere quegli esseri era inferiore, sebbene di poco, alla curiosità di vedere qualche cosa in più. Vidi un uomo, sui quaranta, che presentava tratti somatici del tutto simili a quelli un maiale, o forse di un cinghiale. Naso schiacciato e piatto, orecchie attaccate sopra al cranio, leggera peluria uniforme su tutto il volto, occhi piccoli, gonfiore intorno alle guance.
Le foto successive che vidi mostravano la gamba di un altro paziente, che terminava con qualche cosa di simile ad uno zoccolo equino. Si portava avanti dalla nascita quella deformità, così come quel ragazzo nato con un occhio solo, al centro della fronte. Secondo la scheda che accompagnava le fotografie morì piuttosto giovane e le foto del suo cranio mostravano un solo foro per il bulbo oculare.
Tutto quanto era impressionante. Dita palmate, orecchie lunghe cadenti e pelose, una terza gamba atrofizzata, gente con la coda, due avambracci per gomito e mille altre mostruosità. Ho avuto la tentazione di prendere delle fotografie, di tornarci per scattarne di mie, ma decisi di rispettare le sofferenze di quelle persone.
Mentre risistemavo quegli schedari sentii un rumore e mi voltai. Forse un animale. Dei passi. Silenzio. Altri passi e poi una breve corsa. Mi affacciai al corridoio. Sulla polvere che ricopriva il pavimento vi erano altre impronte oltre alle mie. Le seguii incuriosito.
Di sicuro non era nessuno che mi avrebbe detto che lì non potevo stare, altrimenti non sarebbe scappato. Forse era un altro curioso come me, forse... La mia curiosità non fu mai così bisognosa di essere soddisfatta. Avevo visto cose che non credevo potessero esistere.
Svoltai lungo il corridoio e scesi per una scala. Nella penombra del seminterrato vidi una sagoma che, una volta avvicinatomi, divenne chiaramente quella di un infermiere. "Non sapevo che vi lavorasse ancora qualcuno in questo padiglione!" Gli dissi, sicuro del fatto che mi avesse già visto prima, pensai che era meglio fare la figura del curioso in cerca in informazioni piuttosto che di qualcuno che si nasconde, che di solito è lì per affari peggiori.
Quell'uomo non si voltò verso di me, né mi rispose. La poca luce a disposizione dei miei occhi leggermente stanchi di guardare, osservare e leggere al buio, fu sufficiente a mostrarmi strappi e macchie sul suo camice ed iniziai a capire. "Scusi, lei lavora qui?" chiesi e nuovamente rimasi senza risposta. Non mi sembrava pericoloso e mi avvicinai. L'uomo si voltò.
Aveva almeno sessant'anni, l'aspetto trasandato, la barba incolta e gli occhi rovinati da un evidente abuso di alcool. "Lavoravo qui" sussurrò. "Lavoro ancora qui" aggiunse in un palese stato di instabilità mentale.
"È chiuso da vent'anni. Cosa ci fa qui?" gli chiesi tentando di dimostrarmi amico. "Se non ci penso io ai miei pazienti... tutti i dottori se ne sono andati, ormai" fu la frase che ebbi come risposta. "I suoi pazienti sono tutti morti, l'ospedale è stato chiuso. Dove vive lei?". "Vivo qui, con Giulio, Caterina ed Antonello." "E chi sono, amici suoi?" "Sono i miei pazienti, ora devo andare, devo dare loro le medicine" disse tentando di congedarsi mostrandomi schegge di legno e di intonaco che teneva in mano con un bicchiere d'acqua gialla.
"Il padiglione è vuoto, venga via" provai a dire per convincerlo, ma quell'uomo urlò: "Mi lasci stare!" dandomi uno spintone e facendo cadere le sue 'pillole'. "Vede cosa ha combinato, se ne vada! Ora che non avranno più le medicine scoppierà un casino e daranno di nuovo la colpa a me". "Si calmi, nessuno la accuserà di niente". "Me lo giura?". "Sì". "Ma lei chi è?" mi chiese. "Io devo accompagnarla fuori" provai a dire con voce non troppo convinta. "No! Non prima di aver dato le medicine ai miei pazienti".
"D'accordo, gliele daremo insieme, poi usciremo" gli dissi raccogliendo le schegge di legno e i pezzetti sbriciolati di muratura. "Per fortuna l'acqua non è caduta" mi disse. "Già, meno male" aggiunsi. "Mi sono scontrato con un ficcanaso, dottore, ma non ha visto niente, poi l'ho mandato via come mi ha detto, dottore" disse guardandomi negli occhi.
"Già... Da che parte?" chiesi ansioso di andarmene via. "Dobbiamo andare prima da Antonello, poi da Caterina, dottore" mi rispose avviandosi. Lo seguii. Voltò bruscamente al termine del corridoio per scendere lungo una scala in un seminterrato. Il rumore dei suoi passi sui gradini di metallo della scala fu coperto da un urlo agghiacciante, proveniente da una stanza là sotto, nel buio.
Mi arrestai immediatamente e lui, accorgendosene, si giustificò rispondendo "Grida perché mi sta sentendo arrivare, oggi sono in ritardo con le sue medicine, dottore, ma non capiterà più, non mi faccia picchiare questa volta, la prego dottore". Spaventato ma incuriosito decisi che l'avrei seguito, anche se la sua sagoma era scomparsa nell'oscurità del corridoio sottostante. "Arrivo Antonello, scusami, sto arrivando!" gli sentii dire prima di udire un nuovo grido.
Lui si muoveva benissimo al buio, quasi non si accorgesse della mancanza della benché minima illuminazione. Io rimasi indietro di qualche passo, aiutandomi a procedere con le mani leggermente protese in avanti.
I muri erano umidi e ricoperti da muschi; il metallo delle porte delle stanze era quasi tutto marcio ed arrugginito. "Scusami Antonello, sono qui" fu l'ultima cosa che disse. La porta che custodiva il suo paziente si frantumò dopo un colpo dello stesso. Per quello che riuscii a vedere fu una chela, forse rosso carne, che lo azzannò al collo, staccandogli di netto la testa dal resto del corpo.
Un uomo, lercio e maleodorante, dalle gambe cortissime ma dalle braccia decisamente lunghe, aventi al posto delle mani delle chele, usciva lentamente dalla sua camera. Il suo volto era deformato, piatto e schiacciato. Muovendosi lentamente verso di me veniva colpito dalla fioca luce proveniente dal piano superiore, nei pressi della scala.
Pareva che la cosa lo irritasse ma non gli impediva di avvicinarsi a me. Rimasi immobile, ma sempre a distanza di sicurezza per osservargli il volto. Uno strato osseo, simile ad un elmetto, gli rivestiva la nuca e parte del collo, i suoi occhi erano simili a tubicini neri sporgenti.
Quando questi fu vicino a me, corsi su per le scale. Dopo una rampa mi accorsi che le sue deformità gli impedivano di arrampicarsi per i gradini e rimase ai piedi della scala. Corsi fuori come un pazzo, non curandomi delle ragnatele che incontrai lungo la mia corsa al di fuori del padiglione.
I lunghi vialetti fatiscenti che mi avevano inculcato terrore fino a poche ore prima mi davano un senso di serenità, forse sarà stata la luce del sole. Giunto a casa, dopo una doccia mi soffermai a pensare a quello che avevo visto ed alla figura del pazzo che avrei fatto se avessi avuto il coraggio di raccontare la mia storia senza nemmeno avere una foto con me.
Armato di incoscienza, di una spranga, di una torcia e di una macchina fotografica automatica con flash, ci tornai il giorno successivo. Raggiunsi velocemente quel padiglione ed in poco tempo discesi la scala.
Prima di scendere l'ultima rampa illuminai con la torcia il corridoio. L'uomo granchio era là sotto, morto di non so che cosa, ricoperto di mosche. Scattai qualche foto e scesi. Fotografai anche il povero infermiere, o meglio, i suoi resti.
Percorrendo il lungo corridoio guardai dentro ogni stanza, pronto ad immortalare l'essere deforme sopravvissuto fino ad oggi. Parevano tutte vuote, ma l'infermiere aveva parlato di tre pazienti. Ne mancavano due. Che fossero scappati?
A metà corridoio, sulla destra, notai qualche cosa. Tentai di illuminare all'interno della stanza con la torcia, ma all'inizio mi parve vuota. Ad un attento esame, però, notai che un corpo, grande poco più di quello di un cane ed interamente ricoperto di pelo, era accasciato contro la porta. Non fui in grado di osservarlo bene, ma dall'odore e dalle mosche pareva morto da diverso tempo. Ipotizzando che anche l'altro corpo sarebbe potuto essere nascosto contro la porta, ripercorsi il corridoio ricontrollando ogni stanza.
Infatti, proprio una di quelle da me reputate vuota celava una donna. Il fascio di luce emesso dalla mia torcia la colpì sul volto. Pareva essere una signora di almeno ottant'anni. In piedi di fronte a me. Non presentava alcuna anomalia fisica, forse era solo pazza e, comunque, non mi parve pericolosa.
"Caterina?" Le domandai dolcemente, posando a terra la macchina fotografica. Lei mi osservò e sorrise. "È lei Caterina?" chiesi. Ebbi per risposta un sibilo, al quale seguì lo spalancarsi della bocca di quell'essere. La mandibola si sganciò come solitamente accade ai rettili mostrando una lingua sottile e biforcuta. Mentre, spaventato, indietreggiavo, lei si gettò a terra sulle mani, rivelando di essere sprovvista di gambe. La porta cedette ed una lunghissima coda squamosa fuoriuscì da quella stanza, frustandomi ad una gamba. Non riuscii a scattarle alcuna foto e posso considerarmi fortunato ad esserne uscito vivo.
Fortunatamente mi lasciò stare, decidendo di inghiottire il corpo del granchio morto. Scappai, scappai con tutte le mie forze. Entro la sera successiva avevo le foto sviluppate in mano. Né il rullino né la macchina fotografica mi avevano tradito. Foto chiare e nitide. Purtroppo il taglio sulla coscia che mi aveva causato quell'essere non si era cicatrizzato con una crosta, ma si era ricoperto da squame.

Luigi Bavagnoli