The source of life

Di tanto in tanto si verificano fatti inspiegabili. La razionalità che il mio lavoro mi ha portato ad acquisire e lo scetticismo che da sempre ha caratterizzato il mio carattere mi hanno posto nella condizione di dover rinunciare a trovare spiegazioni inesistenti.
Non posso ammettere l'esistenza di fenomeni che non seguano le regole della fisica o che non appartengano a qualche modello matematico. Così come un sasso lasciato cadere cade, così come un oggetto illuminato in una stanza buia si deve vedere. Eppure...
Abituato a lavorare con un'infinità di bit che, anche se combinati in tutti i modi possibili possono complicare il lavoro, sono pur sempre, alla fine, sequenze di 0 e di 1. La complessità dei miei programmi non coinvolgerà mai valori intermedi, come 1/2, 0,5, o addirittura 3. Solo 0 e 1. O vero o falso.
Un sasso, lasciato cadere, dopo un certo tempo, tocca terra. Vero. Una torcia accesa in una stanza buia è visibile. Vero. Un cadavere, deceduto da giorni, si anima e cammina. Falso. Sbagliato.
Questo è lo 0,5, il 3 che sconvolge tutte le teorie informatiche. Un morto è morto. Le uniche cose che può fare è stare immobile a marcire e a decomporsi. Eppure...
Quando fui tornato sufficientemente in me stesso per ragionare, trascorsi i primi giorni successivi all'accaduto a domandarmi quanto fosse partorito dalla mia fantasia, in quel momento alterata dalla stanchezza, e quanto fosse originato da una natura magica, ostile e contorta.
Il piccolo appartamento nel quale avevo da pochi giorni trasferito il mio ufficio era ormai pronto per essere aperto. Gli imbianchini avevano già ripulito tutto e i nuovi mobili erano stati perfettamente sistemati.
Il forte odore di vernice era scomparso e così, quando arrivai, chiusi le grandi finestre con vista panoramica sulla piccola città di Resti. Ma dopo poche ore, trascorse nel riordinare documenti cartacei e digitali, sentii un pungente odore di aceto o qualcosa di simile.
Spostai le piante, imputandone la causa al fertilizzante che era stato collocato nei grandi vasi di rame. L'odore pareva aumentare di intensità e fui costretto a spalancare sia la porta che le due finestre. L'indomani avrei dovuto riaprire l'ufficio, ma dovevo assolutamente rimediare a quell'odore schifoso. Chiamai Riccardo, il custode del sesto piano. "Probabilmente è morto un topo", mi disse. Poi si accovacciò a terra iniziando goffamente ad annusare i battiscopa lungo i muri. "Sì", aggiunse, "credo che ci sia un topo morto, qui, dietro al muro". In effetti l'odore proveniva proprio da lì.

Chissà da quanto tempo era là dietro. "Avanti, chiama qualcuno e fallo tirare fuori", gli dissi. Mi guardò con uno sguardo tollerante e, sbuffando, se ne andò verso il telefono alla sua scrivania. Tentai, ferendomi un dito, di staccare il legno, bianco come tutta la parete, del battiscopa. Vidi infatti l'ingresso della sua tana. Un buco nel muro che saliva verticale, forse sfruttando un condotto creato per il passaggio di cavi elettrici o telefonici. Portai a terra dalla scrivania una lampada, in modo da fare luce nel piccolo buco.
"Eccolo", e d'istinto feci per infilare la mano nel buco. Il mio dito sanguinava ancora, e non era il caso di entrare in contatto con un sorcio, piccolo, ma in putrefazione. Riccardo entrò nel mio ufficio, senza bussare né avvertire. Per miracolo non mi colpì in testa aprendo la porta, visto che ero ancora accovacciato accanto alla tana. "Dicono che verranno domani pomeriggio", fu il suo messaggio per me.
"Come domani? Non posso aprire l'ufficio, far entrare la gente e scusarmi per l'odore generato dalle carcasse dei ratti che conservo nei muri. Lascia perdere", gli dissi. Dovevo pensarci io.
Un righello, un coltellino, una penna o un cacciavite sarebbero stati sufficienti per estrarre quello schifo. Usai quindi una penna stilografica, guidandola come fa un chirurgo con il suo bisturi, e raggiunsi l'animale. In pochi istanti, una volta agganciato quello che restava della sua pelle con il gancio del cappuccio, il topo fu fuori.
"Portami una scatola, Riccardo". Lui uscì. Mentre osservavo il suo pelo, in parte caduto lasciando scoperte alcune aree di pelle liscia, Riccardo tornò con una piccola scatoletta di cartone. Feci cadere la carcassa del topo nella scatola, e andai a lavare la stilo d'argento in bagno. Non era particolarmente sporca, l'animale aveva ritenuto i suoi liquidi e non vi erano né sangue né altre sostanze purulente che potessero macchiare.
L'acqua continuava a cadere dal rubinetto aperto e la penna mi sembrava sempre contaminata, unta di morte. "Signor Secolo", mi chiamò Riccardo, "sua moglie al telefono". "Arrivo", gli risposi. "Pronto cara? Sì? Certo, per cena. Ti amo. A dopo". Le dissi.
Riccardo era rimasto ad ascoltare la telefonata. Immobile sulla porta. "Cosa diavolo vuoi, adesso?". Gli dissi con tono sgarbato. Rimanendo immobile mi indicò la parete bianca alle mie spalle, ed in particolare il foro dal quale avevo estratto il topo. Mi voltai ad osservare, pronto ad ordinare a Riccardo di andarsene. Sul pavimento c'erano alcuni bacherozzi, larve giallastre, che cadevano dal muro. "E queste da dove arrivano?" domandai tra me e me. Avvicinandomi al muro, lo percossi con il pugno chiuso.
L'urto fece scendere, improvvisamente, una manciata di quelle larve. In seguito ad un calcio dovuto all'ira che si stava impossessando di me, ne scesero altre. Molte altre. Pareva che l'intero muro ne fosse pieno. Quando il flusso cessò, prima di chiedermi cosa fossero, iniziai a raccoglierle con un cartoncino piegato e a gettarle nella scatola.
Sei viaggi furono sufficienti ad eliminare la piccola piramide, compresi gli ultimi bacherozzi che erano sfuggiti prima e si erano incastrati tra le assi di legno del pavimento. Il topo morto era ormai quasi sommerso da quelle strane larve gialle. Riccardo colpì nuovamente il muro un altro paio di volte, ma non scese nient'altro.
"Porta via questa scatola", gli ordinai, sperando che l'odore sarebbe via via scomparso. Il taglio che avevo sul pollice sinistro pareva ormai asciutto. Provai quindi a riattaccare il battiscopa. Nel momento in cui Riccardo raggiunse la sua scrivania, posta nell'atrio lungo il corridoio, appena di fronte agli ascensori, il telefono del suo centralino squillò.
Qualche impegno urgente lo aveva chiamato. Lasciò distrattamente la scatola accanto al telefono e si diresse vero l'estremità sinistra del corridoio. Io l'avevo osservato attraverso la porta del mio ufficio, quasi dirimpetto alla sua scrivania e, appena terminato di incastrare quel pezzetto di legno nella sua posizione originaria, mi diressi verso la scatola. "La butterò io, prima che infesti tutto l'attico", mi ripetevo.
Quando afferrai quella scatola mi resi conto che si stava verificando una di quelle cose che non dovrebbero accadere, almeno su questo mondo. Le larve si muovevano, ma non spontaneamente. Erano continuamente mescolate dai movimenti spasmodici del topo che stava lentamente rianimandosi. Da quello strato di larve, che sembravano piccole patatine fritte, spuntò il capo dell'animale. Dopo pochi secondi di disorientamento, il topo saltò fuori dalla scatola e corse via lungo il pavimento.
"Eppure era morto", mi dissi. "Stava marcendo". "Riccardo!" urlai. "No, non può essere. È stata un'allucinazione". Nessuno arrivava. Gridai nuovamente. Nessuno. Improvvisamente mi sentii solo, abbandonato dal mondo intero, accanto ad una scatola di vermi.
Mi appoggiai alla scrivania. "Forse è ancora qui sotto, forse è stata un'allucinazione. Sì, il topo non si è mai mosso, deve essere nascosto da questi vermiciattoli". Scossi la scatola qualche volta, ma pareva che non vi fosse nient'altro lì dentro, oltre a quelle larve gialle. Larve di che cosa, poi? "Riccardo!" urlai ancora una volta. Mi voltai appena e le mie orecchie furono in grado di avvertire dei passi alle mie spalle. Una lama, guidata da una mano veloce e precisa mi aveva penetrato un polmone. Mentre tutto diventava buio vidi Riccardo, o meglio, quello che era veramente, un cadavere marcio con una tagliacarte insanguinato in mano, raccogliere e mangiare le larve della vita.

Luigi Bavagnoli