Hideous' Island

E' passato così tanto tempo. I giornali non ne parlano più da anni. Ormai sono cresciuto. La mia famiglia sterminata è un ricordo sbiadito, ero piccolo. Le altre vittime di quella cosa, forse venti o ventidue persone, non sono piante più da nessuno. Ogni tanto cerco di ricordare. Il battello, la nebbia, l'isola. Doveva essere una gita come tante altre, ma il mare era mosso. La nebbia scese. Avevo paura. Il giorno prima, appena arrivati in quel paese di mare, mia madre mi aveva comprato un libro sui pesci e le creature marine. Mentre gli spruzzi dell'acqua salmastra mi raggiungevano la faccia, tentavo di nascondermi tra le braccia di mia madre, e mio padre era occupato a tranquillizzare la mia unica sorellina.
Il capitano di quel battello disse di non preoccuparsi, che era frequente il mare agitato in quel punto. Ma non era frequente la nebbia che si stava alzando. Io ero terrorizzato e temevo che un'enorme tentacolo avrebbe avvolto l'imbarcazione per portarla là sotto, dove c'era la sua tana. Tutti i turisti - c'erano anche inglesi e tedeschi che avevano conosciuto questo paesino durante la guerra e vi erano tornati poi con le loro famiglie - erano spaventati. Non solo per quello che ci stava accadendo: tutti noi avvertivamo uno strano presagio. Quando il banco di nebbia si diradò fu troppo tardi, o almeno così all'epoca pensavo, perché il capitano potesse schivare quegli scogli. Il battello si squarciò come fosse di carta e le onde ci spinsero a riva poco prima che affondasse. Era un'isola che nessuno conosceva. Era molto piccola e non era segnata sulle carte marittime. Circondata, o forse sarebbe meglio dire protetta, da una fascia di scogli, era quasi totalmente priva di vegetazione. Solo scogli, rocce e qualche collina. All'appello che il capitano fece sulla riva non mancava nessuno. Tutti miracolosamente salvi. Davvero incredibile. Fu il capitano che, per prima cosa, tentò di mettere in funzione la radio di bordo, che risultò, ovviamente, danneggiata. Fu sempre lui che si addentrò per primo verso il centro dell'isola. Si fermò solo una volta, e fu raggiunto dagli uomini più coraggiosi tra i presenti. Tra quelli non vi era mio padre. Egli era rimasto accanto a me, mia sorella e mia madre, tentando di calmarci. Forse lui non avvertiva quello che tutti noi sentivamo nell'aria, nella pelle.

Il capitano era rimasto immobile per diverso tempo. Ai suoi piedi vi erano degli scheletri umani. Ossa frantumate da qualche animale piuttosto forte e selvaggio. Qualche cranio fracassato si distingueva ancora, per la sua forma tondeggiante, dai resti delle carcasse umane che decoravano quell'isola. Non ve ne erano soltanto in quel punto: in pochi minuti ne vennero ritrovate molte altre, sparse su tutta l'isola. Il gruppo di uomini che aveva perlustrato quasi tutta la zona era tornato dove le donne ed i bambini, aiutati da qualche altro uomo, tentavano di riprendersi. Per la prima volta in vita mia vidi l'orrore dipinto sulla faccia della gente. Non fu la visione dei resti a terrorizzarli, ma fu l'immagine creata dal loro cervello. L'immagine che descriveva la nostra fine.
Qualcuno propose di andare a stanare quell'animale, prima che fosse lui a trovare noi. Altri ebbero da ridire e mentre questi iniziavano ad urlare mia madre mi portò più lontano, e con noi mia sorella. Lei aveva due anni in meno di me, quattro all'epoca. Dopo diversi minuti di animata discussione, il capitano decise di portare con sé alcuni uomini, per perlustrare meglio quella strana isola. Portarono alcuni bastoni raccolti sul posto, qualcuno vi legò in cima delle pietre affilate come le antiche lance da caccia dei nostri antenati. Non serviranno. Non serviranno, mi ripetevo. Io lo sapevo. Anche Daniela, mia sorella, lo sapeva, lo sentiva. Non era quell'animale l'unico nostro nemico. Ad uno ad uno gli uomini scomparvero misteriosamente. Con me rimase solo mia mamma, mentre mia sorella, giudicata troppo piccola, fu portata con altri due bambini, molto più giovani di lei, a ripararsi in un rudimentale di rifugio che alcune donne avevano costruito come riparo dalle violente raffiche di vento che spesso si alzavano.
Molti pensavano che sarebbero dovuti vivere su quella dannata isola per molto tempo, altri che i soccorsi sarebbero arrivati presto. Solo i ragazzi, io, mia sorella ed altri quattro o cinque bambini, sapevamo quale era la nostra sorte. Ben presto tutti quelli rimasti in riva al mare, che nel frattempo si era placato, vennero a conoscenza della scomparsa degli uomini. Erano tutti in preda al panico. Mia sorella stava giocando con dei sassi quando alle sue spalle sparì nostra madre. Si era avvicinata ad un albero ed una zampa la trascinò via. La stessa sorte toccò a diverse altre persone prima che io decidessi di scappare. Iniziai a correre. Daniela mi seguiva e, di tanto in tanto, mi voltavo per avere la certezza che riuscisse a starmi dietro.
Al campo base erano rimasti in pochi, tutti terrorizzati e senza la minima idea di cosa avrebbero potuto o dovuto fare. Mi ricordo che correvo, correvo più veloce che potevo. Non stavo scappando, non potevo. Sotto ai piedi miei e di Daniela scricchiolavano le ossa che affioravano dalla terra umida. L'odore della stessa era fresco, seppur disgustoso. Il vento mi portava i capelli sugli occhi e non riuscivo sempre a guardare bene dove stessi correndo. Ormai senza fiato avevo raggiunto la piccola montagna che sorgeva al centro dell'isola. Mi fermai, aspettando mia sorella, che arrivò accanto a me pochi secondi dopo. Non c'erano piante, nemmeno arbusti. Guardandomi intorno vidi una grotta. Entrava nella piccola montagna rocciosa. Mi avvicinai all'imboccatura. Sentivo che quella era la sua tana. Sapevo che in quel momento, però, era vuota. Decisi di entrarvi, lasciando che mia sorella mi seguisse. L'odore del sangue fu la prima cosa che avvertii, poi quello di carne marcia. Infatti, poco dopo vidi i resti di un falò, troppo umano per essere stato fatto da una bestia; c'erano anche alcuni cadaveri umani in avanzato stato di decomposizione, accatastati l'uno sull'altro. Qualche disegno, dal tratto molto infantile, fatto con sostanze vegetali, decorava le pareti di quella piccola caverna. Mi voltai con il cuore in gola, quando udii lo strillo di mia sorella. Il capitano del battello, unico sopravvissuto, oltre a me, stava lasciando cadere a terra il corpicino di Daniela, con il collo da lui spezzato. Mi disse qualche cosa, sottovoce, che non capii. Ma quella voce, echeggiante per via dell'acustica della grotta, mi torna spesso in mente, tutte le volte in cui ho paura di qualche cosa, nella vita o nel lavoro. Tentò di prendermi, mi inseguì. Non so come, ma fui in grado di scappare fuori da quella cavità naturale e corsi verso il lato opposto dell'isola rispetto a quello su cui il battello si era incagliato. Su quella riva, ad aspettare il capitano, c'era un moderno motoscafo, ormeggiato lungo una lingua di terra che spuntava dalle rocce. In quel momento credetti di aver capito tutto. Il motoscafo gli serviva per tornare al paese, si, ma la verità non si limitava a quello che la mente di un bambino sconvolto può immaginare. Da un cespuglio, alla mia destra, sbucò quell'essere. Il mostro. Stava divorando un uomo che mi parve di aver visto poche ora prima, sul battello con me. Quell'essere si alzò, e prima che, voltandosi, potessi vedergli il muso ricoperto di sangue e brandelli di carne, notai sulla sua schiena, priva di pelo, delle lunghe cicatrici profonde. La sua pelle era segnata da quei tagli, che partivano dalle zampe posteriori e gli arrivavano fino alla gobba che portava accanto al collo. La pelle descriveva delle irregolarità seminascoste dal pelo sporco.
Quella bestia tentò di avvicinarsi a me, ondeggiando in posizione eretta. Rimasto immobile di fronte a quella scena, fui raggiunto dal capitano. Per fortuna, la polizia costiera, che forse già da tempo sospettava qualche cosa, aveva attraccato poco prima. Sentendo gli spari degli agenti che correvano sulle ossa seminterrate, la belva corse via, nascondendosi per non venire mai più trovata. Gli agenti ordinarono al capitano di non muoversi, ma egli tentò di aggredirmi. Iniziò una lotta. Due di loro mi corsero incontro e solo allora fui in grado di capire tutta l'orribile verità. Durante la colluttazione, alcuni indumenti del capitano si strapparono ed io potei vedere le stesse cicatrici che ricoprivano la schiena della bestia anche sulla sua. Fu portato via, processato e condannato per rapimento, omicidio, cannibalismo. Si impiccò in cella due mesi dopo. Ma le vittime non erano sue. Le aveva uccise la bestia. Lui aveva solamente mantenuto l'orribile promessa fatta a sua madre, di prendersi cura di suo fratello. Il suo gemello. Nato e distaccato da lui in quel parto maledetto, quell'aborto di uomo che nasceva da un parto siamese. Quell'essere ibrido, una sorta di scimmione psicopatico, una bestia ritardata, zoppa e deforme, da lui nascosta e protetta, l'unico essere, oltre a me, ad essere sopravvissuto.

Luigi Bavagnoli