Tavolo numero undici

Sono comparsi ieri sera, ma credo non se ne sia ancora accorto nessuno. Tranne me. Mentre servivo ai tavoli, il cliente seduto al numero undici mi ha chiesto di poter mettere in carica il suo cellulare. Gli ho detto subito che l'unica presa di corrente libera era quella di fianco all'ingresso della veranda: il tavolo undici, invece, era dalla parte opposta, più vicino alle vetrate con la vista sulle montagne della valle. Non c'erano problemi, lo usava già fin troppo il cellulare, mi disse consegnandomelo.
Sono andata vicino alla presa chinandomi per inserire il caricabatteria.
E quando ho alzato la testa li ho visti. Lì, incisi nell'asse di legno. Due occhi. Gli occhi del diavolo. Scuri, penetranti, cattivi. Non c'erano mai stati, lo posso giurare sulla mia vita. Sono quattro anni che lavoro in questo ristorante, me ne sarei accorta subito. Invece adesso gli occhi erano lì, nel legno, e mi fissavano, quasi a volermi chiedere qualcosa. Ho continuato a servire i clienti cercando di andare il meno possibile a portare piatti o a sparecchiare i tavoli in veranda. Mi guardavo intorno pensando che nessuno era stato trapassato da quel brivido che mi aveva come bloccata per una frazione di secondo di fronte a quegli occhi. I miei colleghi continuavano a lavorare ignari di tutto, muovendosi velocemente tra i tavoli di legno della sala e i tavolini più piccoli sistemati appunto, nella veranda. La gente chiacchierava: sentivo il vociare confuso che si mischiava alle grida dei bambini ed al rumore di piatti e posate, il tutto amalgamato dalla musica soft che si diffondeva dall'impianto audio.
In veranda ci sono dovuta andare cinque volte. Le ho contate tutte: quando entravo, cercavo sempre qualcosa che mi distraesse da quel pensiero, ma appena mi voltavo per uscire la trave di legno era sempre lì, sulla destra. La presa di corrente aveva ancora il caricabatteria infilato. E sopra, il diavolo continuava a guardarmi.

Sapevo bene che era solo l'inizio. A fine serata mi sarebbe toccato, come sempre, pulire la veranda. Il ristorante si era svuotato quasi verso mezzanotte. Non avevo assolutamente fame. Gli altri si erano riuniti per una cena veloce seduti ad uno dei tavoli della sala principale. Ho preso subito tutto l'occorrente per pulire, compresa la piccola lucidatrice per i pavimenti. Dopo aver spostato i tavoli e le sedie verso il fondo li ho puliti bene, ma con una insolita lentezza. Il diavolo era sempre lì. Alzavo gli occhi e incrociavo i suoi. E ogni volta era come se diventassero sempre più neri, nonostante le luci fossero ancora accese. Non era un riflesso o un gioco di ombre. Dovunque mi muovessi, quegli occhi mi seguivano. Che cosa volevano da me?
Poi, venne il momento di far partire la lucidatrice. La presa bianca faceva quasi da contrasto con quelle due macchie scure, sempre più scure. Mi abbassai nuovamente per inserire la spina. Eravamo vicini. Gli occhi mi parlavano, sembravano indicarmi qualcosa. Finii di lucidare e sistemai di nuovo i tavoli. Il tavolo numero undici tornò al suo posto di fianco alle vetrate scorrevoli. Uscendo mi fermai. Gli occhi adesso fissavano qualcosa nel vuoto. Non mi seguivano più. Erano scurissimi, però. Mi sentivo come soggiogata da quello sguardo. Cercai di intuirne la traiettoria. Mi voltai. Il tavolo undici. Stava guardando quel tavolo. Poi ricordo solo un gran mal di testa e una voglia assurda di buttarmi sul letto a dormire.
Oggi è sabato e il ristorante a pranzo è pieno.
Al tavolo numero undici questa volta siede una coppia abbastanza elegante. Stanno già gustando l'antipasto della casa. Mi avvicino. La signora si volta. Si accorge a malapena del coltello che ho in mano e che affondo rapida nella sua gola. Schizzi di sangue finiscono sulla vetrata a creare un insolito motivo quasi artistico. Sento grida, rumore di piatti caduti, ma dentro di me sono tranquilla, non ho più paura.
Dovevo farlo.
Me lo hanno detto loro, gli occhi.
Gli occhi del diavolo.

Steve Zanna