La chimera

Racconto per il concorso "Premio Scheletri", 2015 - edizione 7

“Non lo avresti mai accettato.”
Si teneva la testa fra le mani. Lo avevo colpito al petto più volte, a mano aperta e infine con un pugno.
Non faceva che ripetere quella frase, il suo tono stridulo si alzava di un’ottava e filtrava dalle dita che gli coprivano gli occhi. Dietro di me, la porta scricchiolò appena. Sentivo nettamente il rumore delle unghie graffiare il legno, armeggiare con la serratura.
Non avrei voluto voltarmi.
“Avresti dovuto chiedermi il permesso! Un mucchio di ossa, cosa avresti potuto mai farci? Una chimera non sarà mai come lei!”
La testa di Arthur, mio fratello, ormai toccava il pavimento, i capelli neri erano ciocche scomposte attaccate allo scalpo. Sollevai appena il piede destro, calcolando quanta forza ci sarebbe voluta per centrare il cranio e fratturarglielo. Il mio piede aveva cominciato la propria discesa, quando udii la porta aprirsi con uno schiocco secco.
Emetteva un verso roco, avrei pensato ad un cane – un cane molto grande, un alano forse – se solo un cane avesse potuto camminare su due gambe dalla pelle olivastra, le caviglie perfette ed affusolate.
Aveva sempre avuto dei problemi a trovare le calzature, per colpa di quelle caviglie.

Sollevando lentamente lo sguardo avvertii un falso calore alla bocca dello stomaco – quel pazzo sarebbe persino potuto riuscire nell’impresa, al contrario di quanto tutti i libri ci avevano sempre insegnato – e per poco non tirai un sospiro di sollievo, credendo mia moglie...
I bulbi oculari pendevano da orbite inesistenti, la pupilla navigava nell’iride. I filamenti che li trattenevano dal cadere a terra gocciavano sangue, ed erano gli stessi che componevano la parte inferiore del suo viso. La bocca era stata risparmiata, labbra sottili e rosse, incredibilmente rosse.
Una pupilla si fissò su di me, uno spasmo contrasse le membra e i tentacoli che dovevano fungere da braccia si sollevarono verso la mia figura.
Arthur stava recitando una preghiera a qualche ripugnante divinità, non riuscendo ad intuire la gravità della propria responsabilità.
Feci un passo indietro, il tentacolo sinistro afferrò la manica della mia camicia, le ventose succhiarono sul tessuto, aggrappandovisi.
“Padre nostro che sei nei cieli... Non avrei mai pensato sarebbe potuta diventare così... C’è chi ha avuto successo...”
La chimera schiuse le labbra, mostrando denti troppo lunghi che affondavano nella carne della mascella. Con uno scatto in avanti, si lanciò sull’uomo tremante, tranciando di netto la gola.
Lentamente, feci un passo indietro, verso l’unica uscita. La osservai, china sul cranio, provai un moto di nausea al guardare la materia grigia che scompariva fra i denti con un risucchio stridulo.
Aprii la porta d’ingresso – il sole andava calando. Fischiai appena, lei girò ciò che rimaneva del viso verso di me, la bocca un tutt’uno con della poltiglia grondante.
“Chimera. C’è molto più cibo... fuori da qui.”

Jacqueline Maggio