Vobiscum Satanas

La maniglia era stata azionata con una moderata forza. Due tiranti della cremagliera cominciavano a contrarre le braccia del malcapitato. La vittima in preda alla tensione irrigidì il corpo. La fronte si inumidì dal sudore che a fiotti scendeva a terra. Nel volto era dipinto il terrore. Emise gemiti, finché un rauco urlo di dolore vibrò per la stanza, davanti al ghigno soddisfatto dell'inquisitore. Il piccolo cenno della mano destra bastò a interrompere il supplizio.
«Allora ti vuoi decidere?»
La voce calma e decisa del domenicano pungeva e derideva l'eretico, nel timbro era racchiusa una malvagità inesplicabile. Inoltre il solo parlare e rivolgersi con quel fare spensierato e provocatorio causava un'esasperata situazione di sudditanza.
«L'ho già detto prima a voi.»
L'inquisitore voltò le spalle, con la mimica facciale ordinò alla guardia di ritirarsi.
«Ripeti ancora, non è mi è chiaro dove sono i tuoi confratelli.»
La vittima sospirò mentre un dolore leniva per le giunture.
«Quello che so è unicamente la mia fede. Esistono due dèi, uno di luce e bene, l'altro di ombra e male. Il dio buono è destinato a vincere. Qualunque cosa facciamo in vita verrà cancellata con la morte, allora noi lasceremo la materialità di questo mondo e ci innalzeremo verso la purezza.»

Seduto al tavolo con in mano una piuma d’oca, l'inquisitore lo osservava con fare stanco.
«Cosa devo fare con te. Io ti chiedo dove sono i confratelli e tu mi rievochi i precetti della tua eresia Catara.»
In un lampo effimero gli occhi dell'accusato si accesero di rabbia.
«Io non sono un Cataro.»
Il domenicano sbuffò alla risposta, massaggiandosi la fronte.
«D'accordo. Cataro no, ma eretico sì. Pensi che il consiglio sia così avventato da inviare un inquisitore a Rouen quando ci sono tutti quegli eretici in Linguadoca. Un solo inquisitore per un solo eretico è troppo. Sappiamo che la tua fede è professata da più persone, dicci chi sono e dove stanno e te la caverai con poco.»
Jean emise un arreso sorriso amaro.
«Per Roma io servo Satana, per me voi lo servite. Continuate a tirare fino a quando le mie braccia si staccheranno dal corpo, o peggio ancora, uccidetemi. Così andrò dal Signore.»
Marciel Pointsaune scosse la testa e con un’occhiata torva d’autosufficienza percorse l’accusato.
«Ti farò una confessione. Dura da ammettere, ma vera.»
Deglutì con calma, come se stesse mandando giù un boccone amaro.
«Io invidio profondamente, con tutto me stesso i Catari. La loro esaltazione incontaminata, il loro eroismo davanti alle tentazioni. La determinazione con cui causano problemi alla chiesa e se ne infischiano della morte e dei legami a cose futili. Proprio come te e il tuo credo. Siete puri a differenza di me e della chiesa. Eppure io provo gioia nel terminare e torturare, perché mi fa sentire vivo. Sfogo la bestialità che spesse volte mi aggredisce e mi tenta con sogni di potere e di sopraffazione. Quando finisco la tortura io sono candido come una pecorella e allora mi accorgo che nel mondo c’è amore. Questo dura poco. Sono attraversato da brividi e devo continuare a fare del male, non posso sottrarmi, altrimenti l’oscurità rischia di prendere pieno possesso su me. Allora penso che papi come Innocenzo III e Onorio III erano del mio stesso parere e non vi sopportano perché voi gli ricordate quanto possa essere bestiale l’uomo. Nato nel peccato originario. Voi siete asceti come santi e ingenui come bambini, illuminati. Allora Satana ci tenta e ci mette alla prova, facendoci dannare ricordandoci che siamo tutte bestie. Se vogliamo evolvere dovremmo essere come voi e noi, allo stesso tempo. Vittime e carnefici, solo così saremmo completi. Perché ti dirò una cosa, io credo, anzi sono del tutto certo che Dio non esiste. C’è solo Satana e non è buono o cattivo, ma entrambe le cose. Perché è giusto e ci insegna. Satana è l’antico Enki/Ea, ci ha creato lui, ci ha salvati dal giudizio universale. Esercitiamo la paura, perché siamo i primi ad averla, per voi e per tutta la bontà nella natura e negli animali. Abbiamo demonizzato la sua figura e quella delle antiche divinità gotiche. Abbiamo persino negato e punito i possessori dei sigilli per evitare la rievocazione degli antichi dèi. Io non ho paura dei demoni, ho il terrore per me stesso, per la bestia che è in me.»
Jean impallidì, stentava a credere alle parole ascoltate.
«Quindi mio caro Jean se volessi farti contento dovrei condannarti al rogo. Non lo farò. Ho pensato a una tortura peggiore. Ti libererò dalle catene che ti cingono i polsi. Tanto sei talmente ottuso che potresti quasi essere contento della sofferenza. Diventerai prete, starai con noi. E non un frate, potresti quasi adagiarti a quella vita, ma sarai un prete o magari un vescovo, visto che le credenziali non ti mancano.»
Una triste commozione fece sussultare di terrore la vittima. Muoveva le palpebre con una smania irrefrenabile. Impallidiva, le labbra assunsero tonalità violacee. Emise un urlo di terrore sovraumano.
«E sia.»
Il dominicano precisò con un tono alto, appena nell’aria s’insinuò una placida e raggelante rassegnazione.
«Tu Jean Colimbert servirai Dio, o meglio Satana, unico motore dell’universo.»
Chiamò la guardia che lo slegò. Jean era inerme, gli arti cadevano a penzoloni, afflosciati, le unghie ticchettarono sulla corazza splendente del soldato.
«Maledetto inquisitore.»
Con voce flebile, quasi rauca, ravvivata da una tenue rabbia, Jean osò sfidare incauto Pointsaune.
«Tu sei la persona più cattiva che abbia mai conosciuta.»
Zigzagando con la testa, il dominicano guardò le marce mura e il muschio che vi cresceva da alcune fessure. Quando con la coda dell’occhio poté accertarsi che la vittima fu trascinata via, serrò la porta della segreta. Con una piuma intinta nell’inchiostro disegnò su un foglio una figura. Un triangolo con la punta verso il basso. Dalle due estremità della base, appunto verso l’alto, fece partire due linee che si incontrarono al centro della figura, uscendo dal triangolo fino a fermarsi all’altezza della punta. Altre due linee furono disegnate dalla punta dirette al margine del foglio, terminarono in una specie di semicerchio arricciato. Una V fu disegnata all’estremità della figura, fu fatta in maniera da essere adiacente alla punta.
Il domenicano con una titubanza provò a guardarsi intorno. Con un ago si graffiò il dito dell’anulare sinistro e macchiò di sangue parte del disegno. Le pupille gli si diradarono, con intermittenze irregolari apriva e chiudeva i bulbi oculari.
Immolato scrutava il disegno, rivestito da una strana esaltazione. Stava quasi per addormentarsi quando un globo azzurro s’accese sul pavimento. Emanava riflessi intensi, chiari e cerulei. In uno stato di dormiveglia prese a recitare come un mantra alcune formule in una lingua sconosciuta che sembrava indicibile.
Aizzava la lingua di fuoco, con l’intensità delle vibrazioni irregolari e altalenanti della pronuncia. La fiamma cresceva in base all’ondulazioni sonore emanate dalla sua voce. Il timbro assumeva imprecazioni scevre e allo stesso tempo cariche di passioni ardimentose e da desideri voluttuosi più nascosti a un uomo di chiesa. Una foschia avvolse gli strumenti di tortura della stanza. Il bagliore arancione delle candele divenne un porpora tendente al bordeaux. La fiamma rifletteva opalescenti ali su una figura umana.
Quando si aveva confidenza con la creatura rievocata, determinate procedure standard non servivano più. L’uso dell’Ars Goetia non era pericoloso se c’erano state altre comunicazioni. La necessità di accendere incensi, o peggio ancora assoggettare il demone evocato in un cerchio, erano per dilettanti. L’inquisitore si sentì irraggiato dal calore bioelettrico di Satana. La gabbia di luce blu si sfaldò e fu quasi abbacinato dallo splendore dell’angelo caduto, dalla simmetria perfetta del suo volto. Lo guardava con ammirazione e devozione, la pelle incerata del signore della terra e dell’acqua rifletteva una luce caleidoscopica sulla veste da inquisitore. Lo sguardo del demone era come se accarezzasse Marciel, lo destasse dallo stato di ignoranza che rende la natura umana lasciva e caduca. Nelle irraggianti cavità oculari del signore asceso ci lesse lo scrosciare di innumerevoli pianti e la gioia di tante effusioni di giovani adolescenti. Perché il signore degli abissi era questo, amore e odio umano, l’incontro degli opposti, ed era rievocato in ogni atto e pensiero. Lui lo stava chiamando e pendeva dall’illimitata saggezza dell’unico padrone del mondo.
Incoronava la Magnum Opus, il raggiungimento dello stato divino tramite il ringiovanimento e l’immortalità. Lo bramava con tutto sé stesso, lo desiderava al punto di macchiarsi le mani di sangue dai più efferati delitti, al punto di pulirsi la coscienza con le più ascete e benevoli azioni immaginabili. Perché quella sensazione di toccamento che gli accarezzava il volto era animata dalle occhiate del padrone, ed era languido e controllato, come sospeso da peripezie continue, infinite. Erano occhi onniscienti che avevano tanto da insegnare, antichi quanto le fondamenta della terra.
Il domenicano assunse una voce lamentevole e cominciò a recitare una poesia in latino composta da lui, in tributo al suo salvatore.
«Vobiscum Satanas...»
Ripeteva sommesso.
«Vobiscum Satanas...»
E ancora...
«Vobiscum Satanas...»

Darkum Neik