Il bosco

Tilo correva, c’era da meravigliarsi, erano le tre di un placido pomeriggio e Tilo correva.
Non aveva mai visto quel boschetto e tutto non era conforme a come si era immaginato quel pomeriggio, un pomeriggio che doveva trascorrere con Laura.
Si era smarrito forse in questa strada isolata che sembrava essere la solita, il silenzio si era posato sullo scandire del tempo, l’unica presenza era la sua, l’unico suono proveniva dal suo incessante correre sul manto di foglie morte.
Tilo era preso da una terribile angoscia che gli artigliava il ventre accelerando il suo cuore fino a farlo sentire asfissiato. Come si trovava lì? Possibile che correndo avesse preso la strada sbagliata?
In un maestoso volo discendente una civetta volò lanciandosi da un ramo verso di lui, Tilo cadde all’indietro terrorizzato e stordito dal terrore spettrale che quel fosco rapace aveva destato in lui con il suo improvviso apparire.
La civetta poco dopo scomparve tra gli alberi liberando un magico batter d’ali nell’aria che sembrava disseminare spore ed essenza di notturna grazia nel pieno meriggio.
Tilo rimase in terra per qualche tempo ormai pervaso da un angoscia indomabile, il suo respiro era una fragile striscia di vetro che poteva frantumarsi da un momento all’altro.
Improvvisamente apparve al di là di alti cespugli e vetuste querce una figura che sembrava esser della morte stessa l’essenza.

Lunghi capelli d’un castano rossastro gli cingevano pendenti il capo, scheletrico petto nudo e smunto, pantaloni a brandelli e piedi nudi, il suo volto era bianco come la cera, era il trucco di un vagabondo Black Metal o il volto della morte stessa? Era un clown pazzo o un filosofo impazzito clown? Insomma chi cazzo era quel tipo che sbucava dai cespugli di un bosco mai visto nel pieno scenario del suo bastardissimo primo pomeriggio con Laura nelle strade deserte.
L’uomo magrissimo e alto si avvicinava, attraverso i capelli lanciava il suo sguardo iniettato di sangue e follia verso Tilo che voleva con tutto se stesso scappare ma non voleva che la cosa si trasformasse in un feroce inseguimento di cui egli era preda. Forse il tipo sarebbe andato via.
Ma il chiodo si dirigeva verso di lui, era placido, barcollante a tratti.
Senza dire nulla balzò su Tilo, quello scheletro dal fisico da tossico aveva una forza immensa, nevrotica, lo colpì alla faccia, ripetutamente, con inumana crudeltà sadica e inesorabile, sempre, sempre più violenti e precisi divenivano i suoi secchi colpi che affondavano con rumoroso odio.
Tilo stordito e sanguinante era avvilito dall’improvvisa violenza che lo aveva travolto, intanto l’uomo lo stava sollevando di peso per poi scaraventarlo contro un albero.
Estrasse due robusti chiodi arrugginiti e ne appoggiò uno alla spalla di Tilo, cominciò a picchiare sul chiodo, il dolore era così lancinante da percorrere tutte le sue membra come fosse una scossa violenta, il tipo intanto vibrava colpi con vigore, affondando sempre più il ferro nella carne come se anche lui in una perversa ascensione provasse quella scossa di agonia che provocava e al tempo stesso se ne nutriva, ne faceva il suo sollazzo, forse viveva per essa.
Per ogni colpo nuovi vermigli schizzi di sangue tingevano il volto niveo del pittoresco aguzzino.
Le grida del povero, ignaro ragazzo erano agghiaccianti, ma nessuno poteva udirle in quel bosco ove solo la morte poteva aleggiare tessendo il suo poema.
Le spalle di Tilo furono inchiodate alla robusta quercia, nella marcia stridente di quelle grida sgorganti insieme al sangue delle ferite il losco aggressore tirò fuori dai pantaloni luridi e consumati un grosso ago e del filo di nylon. Il tipo chiuse con le dita callose e adunche gli occhi di Tilo che si dibatteva tristemente, poi cominciò a cucirgli le palpebre lentamente.
Ad ogni punto il velo scarlatto si espandeva dinnanzi alla vista serrata di Tilo che invano tentava di aprire gli occhi, dolore, nient’altro. Lui doveva solo vedere Laura quel pomeriggio.
Cuciti gli occhi, l’uomo che non aveva aperto bocca e che probabilmente era o una demoniaca entità o un tossico, aprì la bocca della sua giovane vittima serrandogli le aguzze dita alle mascelle, poi vi infilò con severa brutalità vermi, locuste, scarafaggi e farfalle che pareva tenere nelle logore tasche.
Tilo che non vedeva, ma sentiva quella massa vischiosa e animata muoversi nella sua bocca, penetrare e scavare nella sua trachea, visitare il suo interno in un tetro zampettare indisturbato, fu preso da conati di vomito che scossero le sue membra con nuovo, lancinante dolore. Ma il vomito si mescolava agli insetti, rendendo il tutto ancora più disgustoso, l’intera massa ormai lo opprimeva fino a farlo svenire, l’uomo dal volto dipinto e l’aria torva era ormai andato via abbandonando quel corpo inchiodato alla quercia.

 

Laura intanto aspettava seduta a una panchina, una enorme civetta volava sopra la sua testa.

Davide Giannicolo