La soffitta

Non era mai stato nella soffitta del vecchio palazzo della zia Adalgisa, morta, ultraottantenne, da qualche anno. Vi salì, un giorno, mediante una ripida scala di legno, in molti punti rosa dai tarli.
La soffitta era bassa, spaziosa e piena di varie cianfrusaglie, tra cui un paio di scatole colme di ninnoli, un canterano, quattro sedie, una specchiera e libri dovunque.
Uno di questi, in particolare, attrasse la sua attenzione. Era grosso, ingombrante, di colore bluastro.
Alla meglio lo ripulì dallo strato di polvere e ragnatele, poi, dato il suo peso, lo poggiò sul piano di marmo del canterano. Quindi lo aprì nella parte centrale e lesse, a caso, alcune parole:
«... everten consertio valente iron adalar...»
Scosse la testa mentre si mordicchiava il labbro inferiore: non sapeva che cosa, quelle parole, significassero.
All’improvviso, con suo grande stupore, vide una nube giallastra, densa, affiorare dal pavimento in un angolo della soffitta. Dopo alcuni momenti si dissipò e, proprio in quel punto, apparve la snella figura di una ragazza del tutto nuda, dai lunghi capelli corvini sciolti sulle spalle.

Per qualche secondo egli rimase, il fiato sospeso, a contemplarne le forme aggraziate, seducenti, ma provò un senso di vergogna quando negli occhi e nei gesti della ragazza colse un candore quasi infantile.
«Chi... chi sei?» balbettò, con un filo di voce. «Come hai fatto a giungere qui... in soffitta?... Ho l’impressione che tu sia apparsa dal nulla... non appena ho letto quelle parole incomprensibili.»
«Un’antica formula magica,» lei lo corresse con voce pacata, lo sguardo irradiante una limpida luce azzurrina.
«Una... formula magica?» ripeté, incredulo. «Si tratta... di questo?»
La ragazza sorrise, avanzò di qualche passo.
«Il libro che hai tra le mani,» disse, «è molto antico. Risale agli albori del Medioevo e contiene diverse formule magiche, molte delle quali benefiche, altre...»
Si interruppe.
«Altre?» lui la esortò.
«Malefiche... come quella che hai pronunciato poc’anzi... Con essa hai evocato il demone Àbigal e il suo appetito non soddisfatto da tempo.»
«Il demone... Àbigal?»
«Esso è qui, in questo momento.»
Egli volse lo sguardo a destra e sinistra.
«Dove?... Non vedo nessuno.»
«Stai parlando con lui,» disse la ragazza, i cui occhi di colpo divennero enormi, rossi, come iniettati di sangue; la cui pelle, prima bianca e lucente, assunse un colore violaceo e si cosparse, interamente, di piaghe purulenti. «Puoi benissimo immaginare a quale appetito mi riferivo,» aggiunse, spalancando la bocca irta di denti acuminati. «Da anni nessuno mette più piede in questa soffitta... anni di digiuno forzato, ma ora...»
Si interruppe di nuovo e si mosse velocemente verso di lui. Con le mani gli strinse la gola in una morsa d’acciaio; la sua bocca, ora smisurata, si chiuse di scatto attorno alla mia testa.
L’ultima cosa che egli udì fu il rumore di ossa spezzate del suo cranio.

Paolo Secondini