La mattanza

E' mezzanotte quando le guardie ci conducono in cortile. Rischiarato dalle fiaccole, il nudo spiazzo sembra un'arena.
È un'arena.
Almeno per questa notte.
A forza di spintoni, i secondini ci allineano contro il muro. Siamo venticinque. Una lunga fila di uomini con le manette ai polsi e i ceppi alle caviglie. Alla mia destra, un portoricano sfregiato non la smette di piangere.
Il direttore ci sta aspettando. Alle spalle due guardie armate con fucili a pompa. Ha cinquant'anni e un sorriso che non arriva a coinvolgere gli occhi.
Alza le braccia, quasi a volerci abbracciare tutti. La melensa imitazione di un padre che sprona i figli prima di una dura prova. "Benvenuti, signori. Non perderò tempo in chiacchiere inutili. Non vi blandirò con moine e incoraggiamenti, perché non li meritate. Voi siete la feccia della società. Siete assassini, ladri, stupratori. Questa sera, io vi do la possibilità di diventare guerrieri."
Il direttore fa una pausa ad effetto. È un uomo che ama la teatralità. "Vi sfiderete in un combattimento all'ultimo sangue, tutti contro tutti. Non ci sono regole, vale qualsiasi tipo di colpo. L'unico obiettivo è sopravvivere. Il fortunato che resterà in piedi, otterrà la libertà. Gli altri, una fossa anonima."

Sciorina il suo discorso con abilità da oratore consumato. Chissà da quanti anni lo ripete. Organizzare combattimenti tra carcerati è un hobby come un altro, per lui. Il rischio di venir scoperti è minimo. Nessuno si prende la briga di indagare sulla scomparsa di farabutti come noi. E se anche qualcuno si insospettisse, il direttore potrebbe giustificarsi in mille modi. Una rissa in sala mensa. Una rivolta. Un tentativo di fuga finito in tragedia. Cose che capitano in un penitenziario di massima sicurezza.
"Ma non crediate che io sia un bruto. Non voglio morti innocenti sulla coscienza," dice il direttore. Ride da solo per la facezia. "Se c'è qualcuno che vuole ritirarsi, faccia un passo in avanti."
Guardo gli altri detenuti. Nei loro sguardi sfuggenti leggo i miei stessi sentimenti: incertezza, paura, disperazione. Il portoricano sfregiato avanza goffamente, ostacolato dalle catene. La sua divisa arancione è macchiata all'altezza del culo. Si è cagato addosso. La puzza è rivoltante.
Il direttore fa un cenno impercettibile con il capo. Un secondino alza il fucile e fa esplodere la testa del portoricano. Uno schizzo di sangue centra la mia scarpa destra.
"Qualcun altro?" chiede il direttore.
Nessuno si muove.
"Molto bene. Scegliete la vostra arma, signori. Combattete con onore, morite con dignità e fatemi divertire."
Il direttore si ritira su un palco di legno che è stato allestito per l'occasione. Circondato dal suo corpo di guardia, ricorda un imperatore romano. Da lassù, la sensazione di potere deve essere inebriante.
Uno alla volta, noi detenuti veniamo spogliati delle catene e pilotati verso una rastrelliera piena di armi. Spade, asce, lance, pugnali, persino una mazza da venti chili. Scelgo una daga e uno scudo tondo.
Quando anche l'ultimo carcerato ottiene la sua arma, le guardie ci fanno disporre in cerchio, al centro del cortile.
Ognuno di noi spia con apprensione le mosse del proprio vicino. Siamo tutti nemici, adesso. Appena verrà dato il segnale, ci getteremo uno contro l'altro, come iene che si contendono una carogna. Nel silenzio attonito si ode il bisbigliare sommesso di un uomo in preghiera.
il direttore si sporge dal palco. Porta alla bocca un fischietto. Rido isterico. Cos'è, una partita di calcio?
Un fischio stridulo lacera l'aria.
È il segnale.
La mattanza ha inizio.
La Bestia non perde tempo e si getta nella mischia. È un negro di un metro e novanta per centoventi chili, ma non lo chiamano Bestia per questo. Deve il suo soprannome al fatto di aver violentato e fatto a pezzi nove donne, tra cui quattro ragazzine.
Impugnando un'ascia bipenne alta almeno quanto lui, riduce a tronchi umani i disgraziati che gli si parano davanti. Alcuni, pazzi di terrore, scappano. Vengono abbattuti dagli altri gladiatori.
Perché è questo che siamo. Gladiatori.
La massa pulsante di corpi si sbriciola e lascia spazio a una miriade di combattimenti individuali. Vedo Kurt correre nella mia direzione. Rotea una spada leggera e urla qualcosa di incomprensibile. Forse non mi riconosce nemmeno.
Abbiamo condiviso più di una sigaretta durante le ore d'aria. L'ho sempre considerato un amico, sempre che si possa essere amici in galera.
Ma quello è un altro Kurt. Questo è un animale ringhiante che vuole uccidermi.
Mi martella con una serie di colpi alla testa. Paro e contrattacco. Kurt indietreggia, incespica. Un gladiatore compare da dietro e gli scardina la mascella con una randellata terribile, prima di essere risucchiato dal vortice frenetico della battaglia. Kurt apre la bocca e sputa bava e pezzi di denti. Nessuna parola. Le parole sono una prerogativa dei vivi.
Mi sposto in una posizione defilata. Voglio preservare le forze. Mi serviranno.
Provo a contare i corpi dei caduti. Dodici, tredici?
Un bianco pieno di tatuaggi, il ventre squarciato, gattona abbandonando dietro di sé una scia di budella.
Due uomini disarmati si rotolano a terra, mordendosi e graffiandosi come cani. Un terzo li inchioda al suolo con un colpo di picca. Restano così, uno sopra l'altro, in un'oscena posa amorosa.
Un altro si aggira in stato confusionale per il cortile. Stringe al petto il braccio destro, mozzato appena sotto il gomito.
Scorgo Hector, il pacifico Hector, infierire con lo scudo su un avversario ferito. Il rumore di ossa spezzate copre il suo grido di trionfo. L'esultanza è breve: una lancia lo trapassa da parte a parte.
Sento le urla di incitamento dei secondini, li vedo sbracciarsi e saltellare, esaltati almeno quanto noi. Il direttore invece si limita ad applaudire con garbo. Un imperatore deve mantenere una certa compostezza.
Mi distraggo, e una mazza ferrata si abbatte sulla mia testa. Le ginocchia cedono. Sento un sapore ferroso in bocca. Un occhio che diventa rosso. Ma è un colpo senza forza, inferto da una mano esausta. Mi rialzo.
Il mio aggressore ha un coltello piantato in una coscia. Sa di aver sprecato la sua unica occasione, ma non si arrende. Prova un altro assalto. Troppo lento. Lo schivo con facilità e replico con un fendente che lo apre in due. Muore ancor prima di toccare terra.
I secondini sono silenziosi, adesso.
Capisco il motivo quando mi volto. Oltre a me, c'è un solo uomo ancora in piedi, sul lato opposto dell'arena.
La Bestia.
Corre verso di me con la furia indifferente di una mandria di bufali. Provo a scorgere una scintilla di umanità nei suoi occhi. Non la trovo. Per la Bestia non sono altro che l'ultimo ostacolo che si frappone tra lui e la libertà. Sono una pratica da chiudere al più presto.
Ho l'impulso di scappare, ma per andare dove?
Meglio morire in piedi. Con dignità, direbbe il direttore.
È allora che un'idea si insinua nelle pieghe del mio cervello. Folle, assurda, disperata, ma pur sempre un'idea.
Slego le cinghie del mio scudo.
La Bestia è sempre più vicina, le mani ben salde attorno all'ascia lorda di sangue.
Gli corro incontro. Quando siamo a un paio di metri di distanza, miro alla testa e lancio lo scudo come fosse un frisbee.
La Bestia è sorpresa. Piega le gambe, si ripara dietro alla sua arma. Lo scudo incoccia contro l'ascia con un fracasso che mi rintrona nelle orecchie.
Per un istante, un solo istante, trovo un varco. Mi basta. La mia daga affonda fino all'elsa nel ventre della Bestia, che muggisce di dolore.
Un boato di meraviglia si alza dal palco. Anche il direttore è in piedi, incredulo.
Arretro guardingo. La Bestia barcolla, non vuol saperne di morire. Prova a estrarre la daga, ma l'elsa è vischiosa e gli scivola tra le dita. Le forze lo abbandonano.
La sua agonia è lenta, ma alla fine si schianta al suolo come un toro macellato. Mi dirigo verso il palco. Sono esausto. Di più, svuotato.
"Uno spettacolo notevole, davvero notevole!" Il direttore è sudato come se fosse stato lui a combattere. Quello che gli deforma il viso non è più un sorriso, è un rictus.
"Ho vinto," dico. "Mantenga la sua promessa: mi lasci andare."
"Quanta fretta, ragazzo! Hai vinto, certo, ma devi ancora sfidare il Campione."
"Che scherzi sono questi?" La voce mi trema per la rabbia. "Non aveva mai parlato di altre sfide!"
Il direttore mi ignora: "Che entri il Campione!"
Capisco subito di non avere speranze.
Il colosso che entra nel cortile è ancor più gigantesco della Bestia. Ha il cranio rasato e indossa un collare irto di punte. Una guardia lo avvicina esitante e gli passa una spada. Il Campione la osserva per un attimo come se non ne capisse l'utilizzo, poi lecca la lama dalla parte del filo. Con la bocca sporca del proprio sangue e la lingua ridotta a un moncone biforcuto, mi scocca uno sguardo che è un distillato di odio puro.
Parte all'attacco.
Mentre attendo la fine maledico il direttore e tutta la sua stirpe.

Matteo Bigarella