Pastimet doca

Nero, rosso, nero, rosso... tutto intorno gira, come la mia testa. Non riesco a fermarmi, seguo questi tasti che non si fermano, non vogliono fermarsi. Si rincorrono, si cercano: bianco, nero, bianco, nero... è musica.
Sono euforica, oggi sono riuscita a vederlo. Pareva un sogno, uno di quelli che speri arrivi in ogni istante a portarti il sorriso, sorriso che muore al risveglio con il sogno che svanisce.
Erano mesi che non lo vedevo, per diverso tempo è venuto a trovarmi, ad ascoltarmi e a parlare con me. Ha una voce calda, con uno strano accento, non saprei dire da dove arrivi, ma è così intrigante, anche se, lo confesso, a tratti è buffo.
Non sapevo fosse rientrato, non avevo sentito alcuna voce in proposito, eppure era così ricercato!
Leggevo davanti alla finestra quando, con la coda dell’occhio, ho visto un uomo, troppo distante per vederne il viso, ma l’andatura non lasciava alcun dubbio: era lui.
Passo deciso, schiena dritta, un perfetto ufficiale si sarebbe detto. Non abbassava mai lo sguardo, guardava dritto negli occhi, alle volte pareva sfidare chi aveva davanti, ma non era sfida, era lo sguardo di non teme e va diritto per la sua strada.
Per diversi mesi ci siamo frequentati, i nostri appuntamenti erano ricchi di emozioni, di parole, e di silenzi. C’erano dei giorni in cui i nostri silenzi urlavano, erano attimi preziosi, le nostre anime s’incontravano e si spogliavano di ogni paura: erano libere. Libere di sfiorarsi, annusarsi, baciarsi.
Sentivo ogni vibrazione sulla mia pelle, benché fosse distante da me, lo sentivo, era in me, lo dicevano i suoi occhi, le sue mani.
In quei momenti scordavo ogni cosa, era come fluttuare a mezz’aria. Mi osservavo mentre la mia anima liberava tutta la sua passione, e la liberava con lui. Nessuno avrebbe mai potuto capire cosa c’era tra noi, non potevano sentire l’energia che si creava quando eravamo nella stessa stanza, percepivano un disagio, ma è il disagio di chi non sa e non capisce.
Eravamo liberi, siamo liberi, liberi di esprimerci senza il timore di esser giudicati. Un timore di cui c’importava poco, come poteva giudicare chi non aveva un proprio pensiero ma usava quello altrui?
Ho ascoltato più e più volte la sua storia, non mi sono mai limitata a ciò che avevo udito prima di conoscerlo, era lui che doveva farmi capire chi era realmente.
I primi appuntamenti non avevano avuto alcun suono, era un continuo scrutarsi, spiarsi, solo dopo iniziammo a conoscere anche le nostre voci. Due accenti buffi.
Mi ha confidato i suoi pensieri, i suoi desideri, le sue azioni. Nell’udire le sue parole, le sue pause, i suoi respiri, avevo capito. Avevo capito cosa affliggeva la sua anima.
Condividevo i suoi pensieri, per questo non mi pentii mai del mio gesto e ora, ora rivederlo mi portava emozioni contrastanti. Una parte di me non avrebbe voluto rivederlo, desiderava saperlo libero, l’altra era in subbuglio per l’eccitazione. Risentivo ogni parola, ogni suo racconto.
Mi spiegò perché uccidere quelle fanciulle lo faceva stare bene, lo faceva sentire vivo. Ogni sua seduta era una nuova scoperta, una nuova illuminazione per le mie riflessioni.
Trovava quelle donne prive di fantasia, tutte uguali, sempre le stesse parole, gli stessi pensieri. Ogni ragazza che incontrava non riusciva a dargli quell’emozione, quella vibrazione che avrebbe voluto sentire. Troppa superficialità. Non gli interessava soddisfare l’istinto che ogni uomo, ogni animale ha, lui era diverso.
La mente, il pensiero, erano quelle cose che cercavano soddisfazione, cercavano nuovi stimoli, eccitazione...
Quelle fanciulle potevano soddisfarlo fisicamente, ma lui voleva di più. Le uccideva al calar del sole, quando il colore del cielo si univa al colore del lago che circondava la sua casa.
Le stordiva con il cloroformio e poi, con una lama affilata, incideva quei morbidi corpi.
Scriveva su di loro, le usava come uno scrittore usa i fogli, scriveva, cancellava... scriveva.
Inutile dire che cancellare voleva dire passare più e più volte la lama su quella carne, voleva dire sentire le loro urla, ancora e ancora.

Solo dopo aver inciso ogni centimetro di pelle riusciva a rilassarsi e a dedicarsi alla parte più importante: la testa.
Non tutte arrivavano a quel passaggio, molte, stremate dal dolore morivano prima, altre entravano in una sorta di coma temporaneo, mentre le altre, quelle dalla tempra più forte, perivano nel momento in cui la lama le perforava il cranio.
Solo allora lui era soddisfatto, aveva tra le mani il loro cervello, quella piccola massa molliccia e viscida aveva un fascino unico. L’osservava, lo rigirava tra le mani, l’accarezzava con il viso e poi, delicatamente, lo metteva in un barattolo di vetro. Ne aveva diversi sparsi per la stanza, erano come pensieri sottovetro, pensieri inespressi.
Il tono della sua voce si addolciva quando descriveva gli omicidi, e diveniva tenera quando parlava dei loro cervelli, di ciò che provava nel tenerli in mano. Osservavo il suo viso, i suoi occhi, pareva un bimbo, mentre con le mani mimava ogni più piccolo gesto.
Fu allora che decisi di farlo scappare, di riportarlo a ciò che amava. Desideravo vedere, sempre, sul suo viso quell’espressione.
Nessuno capì come riuscì a scappare dal manicomio, nessuno sospettava che la gelida dottoressa potesse mai provare un sentimento per qualcuno, figuriamoci per un assassino!
Ero felicissima quando leggevo le notizie che, i giornali, riportavano, ripensavo al suo sguardo, a quelle mani dai gesti delicati. Uccise diverse donne in quei mesi, tutte riportavano scritte, scritte che la polizia non capì e, quasi alla ricerca di un aiuto, fece riportare sui giornali.
Mi s’illuminò il viso la prima volta che le lessi: Pastimet doca, la frase che incideva in ogni corpo.
Era un messaggio per me, un anagramma: aspettami doc. Fu allora che compresi, l’avrei rivisto, ma non pensavo così presto!
Sento l’eccitazione salire, il sangue è un fuoco, è un dolore lancinante, un dolore che accompagna al piacere. Sento dei passi nel corridoio, sono cadenzati, come solo lui sa fare... mi sta parlando, e presto udirò di nuovo i suoi racconti.

Viviana Guiso