Il teorema del maggiordomo

Attilio, sessantotto anni portati benissimo, sta sbucciando una mela. La contessa, che adesso sta riposando al piano di sopra, va pazza per le mele.
Attilio taglia un ultimo spicchio con calcolata maestria e lo posa in un piattino di ceramica. Mentre risciacqua il coltello, si sorprende a pensare che quella non è un’occupazione degna di lui. Attilio è un maggiordomo, non una sguattera. Tuttavia non è il momento di fare gli schizzinosi: gli altri servitori se ne solo andati. È rimasto solo lui, a badare alla contessa.
Gli viene da sorridere. Nei romanzi gialli vige quell’assurdo teorema secondo cui il colpevole è sempre il maggiordomo. Devo essere l’eccezione che conferma la regola, pensa Attilio. In quarant’anni di servizio in casa della contessa, non ha ricevuto un solo rimprovero. Sempre solerte, impeccabile, presente. Nella buona e nella cattiva sorte. Una volta, quando già la situazione stava diventando brutta, ma non brutta come adesso, la contessa gli ha persino sussurrato: “Caro Attilio! Sarei perduta, senza di te!”
Attilio ricorda di aver perso il suo solito aplomb e di aver mormorato un goffo grazie. Forse è anche arrossito. Anche se non lo confesserebbe mai, Attilio si considera a tutti gli effetti un membro della famiglia.
Mentre attraversa a passi leggeri il salone, non può fare a meno di notare le macchie d’umidità che deturpano le pareti. I tempi dei balli e delle cene a cui partecipava la crema della società sono finiti. Ora la villa cade a pezzi, lui è un povero vecchio e la contessa è costretta a letto dalla malattia.
Non importa, ripete fra sé Attilio. Finché io e la contessa restiamo insieme, tutto il resto non importa. Però ha gli occhi lucidi mentre lo dice.
Sale le scale stando ben attento a non far cadere il piattino con gli spicchi di mela. La camera da letto della contessa è chiusa. Attilio bussa delicatamente.

“Signora contessa, le ho portato uno spuntino.”
Nessuna risposta. Attilio entra nella stanza. Le serrande sono abbassate. Nonostante l’oscurità, posa il piattino sul comodino con sicurezza e si avvicina alla contessa, che giace immobile nel grande letto. La sua mano sinistra pende inerte, mettendo in mostra un grosso diamante attorno all’anulare rinsecchito.
Lentamente, con affettuosa devozione, Attilio prende la mano della contessa e gliela posa sul petto. Insensibile alla puzza di decomposizione, si china e le stampa un bacio sulla guancia mummificata. Quasi vergognandosi per l’audacia del proprio gesto, fa un passo indietro. Osserva le pigre evoluzioni di una mosca attorno alle orbite vuote della contessa. Poi si dirige alla porta. “Ora vado, signora contessa. Se ha bisogno di qualcosa, non ha che da chiamarmi.”
È già con una mano sulla maniglia quando aggiunge: “Le ho lasciato la mela sul comodino, nel caso le venisse appetito.”
Ma sa che è fiato sprecato. È da un po’ che la contessa non ha fame. Cinque anni per l’esattezza.
Eppure Attilio continua a servirla. La contessa sarebbe perduta, senza di lui.

Matteo Bigarella