Compound

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2011 - edizione 10

Superati i campi di granturco, incontro le prime case recintate da staccionate bianche o blu. L’odore di zuppa, misto a torta di mele, riempie l’aria, riportandomi ai giorni in cui mia madre metteva in tavola la cena per la famiglia riunita e riservava a noi bambini le fette più grandi di dolce. Sono stato via per anni, ma nulla sembra essere cambiato nel regno del profeta, o il padre, come gli piace farsi chiamare.
Raggiungo l’abitazione e busso. La bambina sull’uscio é una moglie, non una figlia. Lo testimoniano la cuffia bianca e la gonnella indaco. Il padre le sceglie sempre più giovani.
La dottrina del profeta impone di accogliere i viandanti e la fanciulla mi invita a entrare. Mi fa sedere e mi porge un piatto di minestra. Accetto per non offenderla, anche se da parecchio non ho più bisogno di mangiare.

Il padre, a capotavola, mi fissa con occhi indagatori. Il tempo ha intorbidato le iridi cerulee senza per questo rendere meno tagliente lo sguardo. Ma io non sono più il ragazzo di una volta: obbediente e rispettoso delle regole. Allora, neppure immaginavo che si potesse vivere in modo diverso. Poi, mi ammalai e mi portarono in città.
In ospedale, conobbi un giovane. Era gentile e per lui provavo sentimenti a cui faticavo a dare un nome. Il profeta invece li riconobbe subito: quando tornai alla comunità, disse a tutti che ero impuro e mi punì.
Finito il pasto, slaccio il panciotto. Lo sguardo del padre scende dalla faccia alla camicia e si ferma sul fianco, dove si allarga la macchia rossa. All’improvviso, ricorda. Il volto gli si contrae, mentre annaspa in cerca di aria. Spaventata, la ragazzina grida.
Esco. Ho esaurito il mio compito. Tra poco, il profeta conoscerà l’inferno di cui ha tanto predicato.

Maria Lipartiti