I morti di Acquafredda

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2011 - edizione 10

Avevo diciassette anni quando fratel Gerardo mi parlò della missione. L’epidemia era scoppiata da un mese. I film che avevo visto sugli zombie avevano previsto tutto, tranne che i morti sarebbero tornati in vita senza appetito.
Dov’è finta la loro rabbia, la loro voglia di carne umana?
Forse non hanno fame perché erano apatici anche da vivi. Triste scoprire che neanche la morte reca sollievo. Fratel Gerardo dice che sono uno sciocco a credere che sarebbe andata come in un horror di Romero. E io mi lascio dare dello sciocco, perché qui ad Acquafredda non ho nessun altro al di fuori del vecchio prete.
Gli amici, i parenti, chiudono gli occhi senza motivo e dopo un po’ li riaprono come se prima di morire si fossero scordati di fare un’ultima importante cosa. Perché a noi non tocca la stessa fine? Fratel Gerardo dice che è la volontà di Dio. Dio ci ha scelto per dare la pace ai morti che non riescono ad addormentarsi.

Ma pace significa falce. E falce significa teste che saltano come tappi di sughero da una bottiglia di Champagne. Ogni tanto ho l’impulso di prenderne uno e portarlo con me. Per studiarlo, per capirci qualcosa. Fratel Gerardo dice che non c’è niente da capire.
Ormai ho trentadue anni e affilo la roncola una volta alla settimana. Stamattina ho sentito dei colpi alla porta. Prima di aprire ho guardato dalla finestra. Era fratel Gerardo. Sbatteva la testa contro l’uscio camminando sul posto. Ho fatto quello che andava fatto. Mentre la testa del prete saltava sullo zerbino ho capito che l’avrei fatta finita con un colpo di pistola. Poi mi sono visto vagare in eterno per le campagne di Acquafredda senza trovare nessuno che mi riconsegnasse alla morte e ho cambiato idea. Che sciocco vero?

Luciano Filippo Santaniello