Il Poeta

Racconto per il concorso "Premio Scheletri", 2011 - edizione 3

Un dispettoso spiffero d’aria gelida spostò lievemente la pergamena sulla quale scrivevo la mia poesia dedicata alla Morte, madre-sorella-amante che fedelmente ci accompagna dal primo vagito, all’ultimo respiro. Una goccia d’inchiostro nero cadde dal pennino, macchiando il foglio. Dovevo ricominciare.
Innervosito, mi alzai lasciando incompleta la mia opera. Mi mancava l’ispirazione e la macchia sul foglio era solamente un pretesto per sospendere il lavoro. Ero stanco, deluso e arrabbiato. Giorni, settimane di lavoro senza risultati.
Mia moglie si era addormentata da circa due ore o forse più. Avevo perso la cognizione del tempo. Non volevo andare a dormire, per paura di fare i soliti incubi. L’indomani sarebbe stato il primo anniversario della morte di mio figlio. Aveva dieci anni, solo dieci anni. Torturato, ucciso, deturpato da un lurido, rivoltante, bastardo schizofrenico, mentre rientrava a casa.
Non mi perdonerò mai: lui mi aspettava, io ero in ritardo... s’incamminò da solo e quando lo trovai, mi si presentò uno spettacolo sconcertante. Nulla potrà mai togliermi quell’immagine dalla mente: mio figlio mutilato, riverso in un’orrenda pozza di sangue con le interiora sparse sulla strada. Il volto pareva rosicchiato, così come il resto del corpo. I poliziotti mi comunicarono che era stato vittima di un antropofago. Provai una sensazione di disgusto, mista a furore. Mia moglie cambiò umore e divenne distante. Non potevo darle torto. La responsabilità era mia.
Un anno. Tanto era passato dalla morte del mio piccolo e il suo assassino era ancora libero. Mai trovato. Mai identificato. Sconosciuto. Pronto a colpire ancora.

Il lume stava per esaurirsi. La stanza, poco alla volta, diventava sempre più buia. Un feroce mal di testa mi faceva impazzire. Vedevo sfumato, solo macchie nella camera quasi completamente priva di luce.
Uscii da casa per distrarmi e per trovare l’ispirazione. Vagai tra vicoli malfamati. Che cosa poteva accadermi? Non m’interessava.
Rientrai molto tardi. Ero inquieto, soverchiato da infausti presagi.
Nell’aria un odore orribile.
In terra sangue. Tanto sangue. Ovunque.
Entrai nella stanza da letto. Il fetore era più intenso. Scostai le coperte, anch’esse insanguinate, e vidi il corpo di mia moglie, dilaniato. Grida di terrore si soffocarono in gola. Rimasi paralizzato diversi istanti. Mi girai. Sullo specchio, con sangue purpureo, era scritto: “Buon anniversario, la Morte”.
Mi aveva sconfitto. La Morte mi aveva battuto. Non avevo finito in tempo il mio componimento e lei mi aveva punito. Un anno di tempo, ma io non ero riuscito nel mio compito.
Delirante, osservai nuovamente mia moglie e un rigurgito salì violento. Non riuscii a trattenerlo e riversai il disgustoso contenuto del mio stomaco in terra. Tra il vomito, un luccichio: l’anello della mia sposa.

 

Sono passati 150 anni. Lunghi, intensi, tristi! In compagnia della Morte!
L’ispirazione per ultimare la poesia non è mai arrivata. O forse, io... non ho mai veramente desiderato terminarla.

Davide Benincasa