Il figlio di Lavinia

Quando Lavinia annunciò ai suoi genitori che quella notte avrebbe partorito un bambino, i due anziani ammutolirono imbarazzati. In effetti era poco probabile che una donna di quarantacinque anni, con la pancia completamente piatta, fosse in procinto di avere un figlio.
- Lavinia, non cominciare con le tue stramberie - disse sua madre, la signora Luisa, mentre addentava un grosso bignè alla crema.
- Ragazza mia, cosa dobbiamo fare con te? Siamo stanchi. Abbi un po’ di compassione per i tuoi vecchi - sospirò suo padre, il signor Mario, completamente sprofondato nella poltrona.
- Chi ti ha messo in testa questa ennesima idea? - sibilò la madre - qualche amichetta conosciuta in manicomio?
- Manicomio un corno! - protestò il padre - Era una clinica di lusso. Lo so io quanto mi è costata.
- E con chi avresti concepito questo ipotetico bambino? - domandò la signora Luisa, sgocciolando crema pasticcera dagli angoli della bocca rugosa.
Lavinia dischiuse le labbra in un sorriso infantile. Alzò i grandi occhi verdi al cielo.
- Con l’angelo preferito del Signore - rispose tutta contenta.
I suoi familiari ripiombarono in un esterrefatto silenzio.
Poi, dopo qualche istante, il signor Mario si alzò, si avvicinò zoppicando a quella figlia degenere e le diede un sonoro ceffone.
- Non si bestemmia in casa mia - sussurrò il vecchio, mortificato da tanta insolenza.

Lavinia tornò in lacrime nella propria cameretta.
In quella cameretta dove per anni il signor Mario aveva abusato di lei.
La donna si rannicchiò sotto il letto e fu subito aggredita dai ricordi strazianti dell’infanzia. Sentiva ancora la spaventosa voce di suo padre mentre le ordinava di stare ferma. Una volta aveva provato a confidarsi con la madre, ma questa l’accusò di essere una puttana bugiarda e minacciò di buttarla fuori di casa, se avesse osato raccontare ad altri quella sporca menzogna.
Allora, per difendersi dalla ferocia del passato, Lavinia cercò di concentrarsi sul bellissimo ragazzo che, poche ore prima, era apparso nell’angolo più buio della sua stanza.
Aveva detto di essere l’angelo Portatore di Luce. Le aveva chiesto il permesso di entrare nel suo ventre, per compiere ciò che era scritto. Ma soprattutto le aveva promesso un figlio.
- Mi farai male? - gli aveva chiesto un po’ spaventata.
- Concepirai in sogno e partorirai senza dolore - promise l’angelo, fluttuando nella penombra.
Lei accettò entusiasta, battendo le mani.
Adesso, mentre era raggomitolata in posizione fetale sul pavimento gelido, si chiese se non si fosse trattato soltanto di una stupida allucinazione.
Scivolò nel sonno, cullata dall’illusione di avere un bambino tutto suo, l’unica creatura che forse avrebbe potuto ricambiare l’amore di una povera mentecatta.

 

La mattina seguente Lavinia apparve sulla soglia della cucina mentre i suoi genitori erano intenti a sorseggiare caffèlatte. Di solito non la degnavano della minima attenzione, ma stavolta rimasero impietriti a guardarla.
O meglio, a fissare attoniti il bambino che teneva per mano.
- Si chiama Helel. Significa Stella del Mattino. Non è bellissimo? - chiese Lavinia.
Il ragazzino dimostrava all’incirca una decina d’anni. Aveva sottili capelli biondi, lineamenti delicati ed un incarnato di porcellana. Teneva gli occhi ben chiusi come se temesse la luce del sole. Indossava a mò di tunica soltanto il lenzuolo che Lavinia aveva tolto dal proprio letto.
- Disgraziata! Cosa hai fatto? Hai rapito un bambino! - esclamò la signora Luisa.
- Poverino. Chissà come sarà spaventato. Vieni dal nonno - disse il signor Mario, scatenando la sua oscena immaginazione.
- Tu non devi toccarlo! Gli faresti male! - esclamò Lavinia, facendo scudo al piccolo con il proprio corpo - E non l’ho rapito! E’ mio! L’ho partorito stanotte!
- Ma cosa dici, cretina! Prima di tutto non sei mai stata incinta. E poi dovrebbe essere un neonato invece... ma insomma non vedi quant’è grande!” protestò il vecchio.
Lavinia abbracciò teneramente Stella del Mattino.
- Cresce molto in fretta - disse piano.
Il signor Mario perse la pazienza. Nessuno poteva permettersi il lusso di prenderlo per il culo. Afferrò il suo bastone da passeggio: stavolta quella sgualdrina psicotica non se la sarebbe cavata con un semplice ceffone.
Ma in quel preciso istante il bambino aprì gli occhi.
Neri come pece bollente.
Completamente neri.

 

A mezzogiorno il figlio di Lavinia crebbe fino ad assumere l’aspetto di un uomo.
Con un cenno del capo oscurò il sole.
Sul quartiere calò un’improvvisa coltre di tenebra e tutti gli abitanti della zona precipitarono in uno stato catatonico. Molti crollarono a terra privi di sensi. Altri, completamente storditi, iniziarono a piangere ed a biascicare preghiere incomprensibili.

 

Alle cinque del pomeriggio, Helel era alto più di due metri. Decise che era giunto il momento di occuparsi dei due vecchi peccatori, paralizzati, inginocchiati da ore ai suoi piedi.
Si sputò sul palmo della mano sinistra ed emise uno strano guaito.
Al suo fianco apparve una creatura assurda: una pecora scarnificata, eretta sulle zampe posteriori, occhi grandi come pugni, un muso leporino ed una bocca le cui labbra gonfie e nere lasciavano intravedere centinaia di sottili aghi d’acciaio. Muoveva il cranio oblungo a scatti, come un insetto, mentre dal suo torace spuntavano decine di piccole mani infantili che cercavano di ghermire chiunque fosse alla loro portata.
Non aveva un nome, ma presso le antiche tribù di Ra’r’h era conosciuto come l’Agnello del Tormento.

 

La signora Luisa provò molto dolore quando le vennero amputate gambe e braccia. Sperò di morire ma presto si rese conto di aver perso questo privilegio. Venne sistemata in balcone, su un piedistallo di marmo, trasformata in un busto scarlatto ed urlante. Ogni tanto l’Agnello del Tormento la costringeva a guardare il nuovo mondo, strappandole le palpebre. Queste, come altri parti del suo corpo mutilato, ricrescevano nell’arco di poco tempo solo per essere sottoposte a nuove fantasiose torture.
Il Signor Mario venne rimodellato in modo più drastico. Helel lo impalò lentamente, avendo cura di inanellare ogni sua singola vertebra ad una lunga asta d’acciaio. Anche lui venne esibito sul terrazzo, accanto alla moglie urlante, come un sanguinante vessillo antropomorfo. L’Agnello del Tormento gli sfilacciò tutti i nervi, esponendoli all’aria aperta, senza recidere i loro collegamenti con l’encefalo. In questo modo, ogni volta che un alito di vento sfiorava le fibre nervose penzolanti dal corpo trafitto, il dolore del vecchio toccava vette mai raggiunte da essere umano. Anche il signor Mario non sarebbe mai morto e le sue grida erano destinate a protrarsi per sempre.

 

Alle nove di sera il rombo degli gli aerei militari squarciò il silenzio. Alcuni mezzi blindati si stavano ammassando lungo i confini del quartiere. Anche se non si erano ancora resi conto di quanto stesse accadendo, gli uomini erano già pronti ad uccidere e distruggere.
Helel scese in strada. Sussurrò una parola in una lingua antichissima e le tenebre si estesero a tutta la città. I soldati, intrappolati nel nuovo cono d’ombra, preferirono cavarsi gli occhi piuttosto che guardare in faccia l’Abisso.

 

A mezzanotte Lavinia iniziò a stare in pena. Il bambino l’aveva pregata di chiudersi a chiave nella propria camera. Lei aveva acconsentito malvolentieri. In cuor suo sapeva che non era un ragazzino qualsiasi, ma aveva comunque paura che qualcuno potesse fargli del male.
Dalla finestra aveva visto il cielo oscurarsi e tutt’ora udiva atroci grida levarsi alte nel cielo.
Finalmente sentì bussare alla porta.
Per entrare Helel dovette chinarsi perché oramai era alto quasi tre metri. Nonostante avesse mutato radicalmente aspetto, Lavinia riconobbe subito il figlio. Gli corse incontro sorridendo ma giunta ad un paio di passi da lui, si fermò intimorita.
Era un gigante.
Ora indossava persino una corazza rossa ed un corona di serpenti dorati.
Le punte delle sue enormi ali bianche sfioravano le pareti ai lati opposti della stanza.
Era il principe dei mille anni.
Lavinia pensò che forse non era degna neanche di rivolgergli la parola.
Si guardarono negli occhi.
Lui si inginocchiò sul pavimento per far sì che sua madre potesse abbracciarlo.

Raffaele Siano