Fermata a richiesta

L'una di notte era passata da dieci minuti. Di lì a poco l’autobus sarebbe partito, e lui, abbandonato sul sedile, si chiedeva quale degli omini vestiti di blu che stavano in piedi a fumare avrebbe preso posto nella cabina di guida. Il piazzale dello stazionamento pullulava di militari, ma quella pareva una notte tranquilla. Le città più grandi cercavano lentamente di tornare a una vita normale. Ma tra la città e i centri più piccoli restava ancora la vasta zona d’ombra. Un mare scuro e ignoto da attraversare...
Finalmente il conducente si staccò dal gruppo e salì sul bus. Era di mezza età e piuttosto tarchiato, ma non muscoloso. Entrò nel cabinato di spessa vetroresina, sbatté la porta e inserì la pesante barra di bloccaggio, Mentre avviava il motore tossicchiante, il passeggero obliterò il biglietto.
Tornò al suo posto, mentre il vecchio autobus usciva dallo stazionamento, e si rilassò contro lo schienale. L’interno puzzava di rancido e di piscio vecchio, pareti e sedili erano anneriti da antico sporco. Sporadiche cicche ornamentavano il pavimento.
«Posso fumare, capo?» Gridò un paio di volte, per superare il frastuono del motore.
«Fa un po’ il cazzo che ti pare.»
Si diressero verso la periferia. Le strade erano deserte, e, occhieggiando le cime dei palazzi, riusciva a scorgere le sagome delle vedette armate. L’autista scrutava la strada senza alcuna espressione, tamburellava con le dita sul grosso volante. Nello scomparto accanto al cambio si intravedevano un vecchio canne mozze e alcune granate. Dalla fondina sotto l’ascella spuntava il calcio di una calibro 12.

La strada era divenuta poco illuminata, con edifici fatiscenti, quando la luce dei fari illuminò una figura smagrita e barcollante che veniva incontro al bus. Era così rigida e innaturale nei movimenti, che ci si sarebbe aspettati di vederci attaccati dei fili mossi da una mano invisibile. L’autobus accelerò la sua corsa.
Fece in tempo a vedere che gli mancava metà del braccio sinistro, e che gli occhi mostravano solo il bianco, prima che l’autista lo mettesse sotto. L’autobus sobbalzò. Poi per un breve tratto ancora si sentì il rumore di qualcosa che veniva trascinato sull’asfalto.
«Coglione, non lo sai che la fermata è più avanti?» urlò il conducente. Sghignazzò, e la risata suonò come un rumore di unghie che grattavano una lavagna. L’altro rabbrividì.
Erano arrivati alla periferia che precedeva l’imbocco della vecchia strada costiera. La lingua d’asfalto era danneggiata in più punti, e si insinuava nella brulla campagna, in cui le case erano rare.
Alla luce della luna, intravidero un movimento in lontananza davanti a loro. Qualcuno correva verso la strada. Una donna. Magra, cenciosa, disperata.
Viva.
Si buttò in strada, davanti alle luci del bus. Rimase lì, tremante per lo sforzo e la paura.
Gli occhi si spalancarono quando si rese conto che l’autobus non accennava a rallentare. Allargò le braccia, gridò, facendo segni in modo frenetico.
Un attimo prima di venire travolta, l’ultimo guizzo del suo istinto di autoconservazione le fece fare un balzo indietro, ma la fiancata del pesante veicolo sembrò lambirla mentre si ritraeva.
L’uomo si voltò indietro mentre superavano la ragazza. Più in lontananza, distinse un gruppo di quelle cose, che avanzavano verso di lei. Si muovevano lente, quasi pigre, con passo incerto e ottuso. Ma vide che lei si era piegata sulle ginocchia, scivolando a terra. Aveva consumato le sue ultime energie. Non sarebbe riuscita a riprendere la corsa, o forse sì? E dove poteva fuggire, in ogni caso?
Alcuni minuti dopo, finalmente, passata l’ultima curva, imboccarono la strada che percorreva il tratto costiero.
Non c’era quasi nessun albero a nascondere la vista del mare illuminato dalla luna. Aveva sempre amato percorrere quella strada. Il mare era calmissimo, il cielo terso.
Si decise. Non gli interessava andare in una città diversa, non sarebbe cambiato nulla. Il mondo tutt’intorno era morto. Nessuno aveva il coraggio di dirlo, ma in tanti lo avevano capito. E lui si sentiva soffocare. Lentamente la mano schiacciò il pulsante rosso.
Sentendo il suono che indicava la prenotazione della fermata, l’autista si voltò verso di lui.
«... Cazzo fai? Ti è marcito il cervello?» Lui non rispose.
«Ti avverto, se vedo un qualsiasi movimento vicino la fermata, ti fai in culo. Fatti aiutare da qualcun altro a suicidarti.»
Ma quando giunsero in vista della fermata, non c’era nessuno vicino al cartello indicatore, né accanto alla panchina. La striscia di asfalto proseguiva perdendosi nel buio, con la parete rocciosa a sinistra e il mare silenzioso sulla destra. Una fermata d’autobus dimenticata, sulla strada per nessun dove, in quel mondo morto.
Il veicolo rallentò sferragliando, e l’autista azionò l’apertura della porta anteriore.
«Ma guarda tu... qui non troverai neanche un buco in cui rintanarti. Addio, testa di cazzo!»
Saltò giù rapido. Restò a guardare il bus che ripartiva, seguì con lo sguardo finché le luci non furono inghiottite dalle tenebre. Poi si voltò di nuovo verso la distesa d’acqua che rifletteva la luna, e inspirò profondamente l’aria.
L’odore salmastro sapeva di pulito.

Vincenzo Barone Lumaga